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Le “cazzate dorate” del Festival di Sanremo

originalL’ultimo Festival di Sanremo ha registrato un record: non parliamo di audience, ma di parolacce. In 59 anni di storia, la kermesse canora ha sfornato varie canzoni con espressioni forti, ma quest’anno ha fatto il pieno: 7 parolacce in 3 canzoni diverse.
Ulteriore sintomo del degrado dei nostri tempi? O chi le ha criticate era solo un bacchettone che non concepisce la libertà artistica? Né l’una né l’altra ipotesi mi trovano d’accordo.
Ora che i riflettori del Festival si sono raffreddati, è arrivato il momento per una riflessione più lucida. Ricordando che la prima parolaccia festivaliera risale al 1981 con “Roma spogliata” di Luca Barbarossa (la strofa: “Roma puttana quattro dischi, un gatto, una serata strana”). Come racconto in “Parolacce” in origine si intitolava “Roma puttana”, ma l’artista fu invitato a cambiarne il titolo per mitigarne l’impatto…
Ma torniamo ai giorni nostri. Per non lasciarci condizionare da moralismi a priori, esamineremo le espressioni volgari nel contesto in cui sono state usate: il testo integrale delle canzoni e anche la musica, che dà la cornice emotiva al brano.

Masini e l’invettiva

Partiamo da un habituè: Marco Masini, già autore di canzoni a tinte forti: “Vaffanculo” (1993) e “Bella stronza” (1995).
Quest’anno, il sanguigno toscanaccio ha presentato “L’Italia”. Ecco le strofe “incriminate”:

E’ un paese l’Italia dove un muro divide a metà?
La ricchezza più assurda della solita merda?
Coppie gay dalle coppie normali

(…) E’ un paese l’Italia dove l’anima muore da ultrà?
Nelle notti estasiate nelle vite svuotate?
Dalla fame dei nuovi padroni?
E’ un paese l’Italia che c’ha rotto i coglioni!

La canzone è uno sfogo, probabilmente sincero e sentito: vuole denunciare le contraddizioni e il degrado del nostro Paese. Ma le due parolacce non aggiungono nulla al qualunquismo di questo testo, che non brilla per originalità né per profondità: sarebbe rimasto grossolano anche senza parolacce (vedi la strofa: “è un Paese l’Italia che governano loro…le mani bucate dei partiti del giorno”).
La canzone di Masini appartiene a un genere letterario molto antico: l’invettiva. Un componimento che nasce per scuotere le coscienze, ma nel suo caso si ferma al palo senza rivelare sentimenti o fatti che ancora nessuno aveva avuto il coraggio o la capacità di esprimere.
Ci era riuscito, invece, un altro (e che altro!) toscanaccio, Dante Alighieri, che nella “Commedia” (Purgatorio, canto VI, strofa 78) scriveva:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

I Gemelli diversi e il rap 

Ma lasciamo in pace i geni immortali e torniamo al Festival. Il secondo caso è quello dei Gemelli diversi con “Vivi per un miracolo”. Ecco le strofe contestate:

Per ogni cuore fatto a pezzi da una stronza?
Per ogni donna che ha un uomo che non la ascolta
(…)
Per chi è aldilà del muro?
Per chi è umiliato e al suo padrone grida vaffanculo?
Perché ogni verità taciuta venga conosciuta
(…)
Per chi non se ne frega?
Ti imploro veglia e prega?
Su ogni ribelle nel giusto che non si piega

E’, di fatto, una preghiera moderna, dedicata agli ultimi, ai disperati e agli sconfitti, nella forma musicale del rap. Un genere musicale, questo, lanciato nei ghetti neri di New York (ma in realtà, spiego in “Parolacce”, nato nel Mediterraneo duemila anni fa): per questo contiene nel suo Dna il linguaggio crudo da strada. Non è arte alata, ma lo trovo più accettabile o almeno coerente con il genere musicale che rappresenta.

Gli Afterhours rudi

E veniamo all’ultimo brano: “Il paese è reale” degli Afterhours. Ecco le strofe “toste”:

Piangi fermo in tangenziale
Inseguivi una cazzata?
Era splendida e dorata
Fresca e avvelenata
(…)
Se hai voglia di pensare?
Che fra poco è primavera?
Adesso fa qualcosa che serve?
Che è anche per te se il tuo paese è una merda

Anche in questo caso una canzone con un taglio “sociale”. E’ la storia di un tale in coda sull’auto in tangenziale: si mette a pensare alla situazione dell’Italia, rendendosi conto di aver perso i punti di riferimento. La canzone – un rock musicalmente originale – invita a darsi da fare, superando l’indifferenza regnante. Il testo però è frammentato ed è il più grossolano dei tre, sembra più per povertà espressiva che per scelta voluta: come  fa una cazzata a essere “splendida e dorata, fresca e avvelenata”?
Proviamo ora a fare una riflessione generale. Intanto, salta all’occhio un dato comune: tutte e 3 le canzoni hanno ambizioni sociologiche. Vogliono fotografare i malumori dell’Italia di oggi, spiegandone le ragioni e dando qualche soluzione o sfogo. Usando il crudo realismo del linguaggio dei “gggiovani”.

Le volgarità come gli abiti provocanti

Una scelta artistica accettabile e con una propria dignità. Ma è solo così? Inutile nascondersi dietro un dito: le parolacce al Festival di Sanremo, manifestazione tradizionale e tradizionalista, sono un facile escamotage per farsi notare e finire, con una corsia preferenziale, sotto i riflettori di telecamere e giornali.

Abiti presentati alle sfilate di moda in Australia: andreste in giro così?

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A Sanremo le parolacce hanno la stessa funzione dei vestiti trasparenti, stravaganti, provocatori che appaiono in alcune sfilate di moda: nessuno li indosserebbe mai nella vita reale, ma fanno comodo a molti… Ai fotografi che li riprendono, ai giornali che li pubblicano (anche solo per criticarli) e ai lettori che li commentano. E – soprattutto – agli stilisti che li lanciano.
Il giochetto, però, è ormai logoro, sia nella moda che nella canzone. Diventa facile, in generale, per chi ha una canzone anche mediocre, conquistare il proprio quarto d’ora di gloria infilandoci una parolaccia per fare audience. Ma il pubblico, alla fine, gradisce altro: forse non è un caso che una delle canzoni più scaricate sia la pulitissima “Sincerità” di Arisa, secondo la classifica della Fimi. Parolacce e canzoni sono due linguaggi che esprimono emozioni, ma il loro abbinamento è delicato: se le parolacce esprimono emozioni negative (e lo fanno quasi sempre), appesantiscono una canzone, accentuando gli stati d’animo di rabbia, malumore, risentimento, offesa.
Diverso è il caso delle canzoni goliardiche (tipo: “Osteria numero mille…”) o umoristiche (tipo: “L’inno del corpo sciolto” di Roberto Benigni): in questi casi, le parolacce hanno un irresistibile e alato effetto comico.
Per questo lancio una proposta provocatoria: inserite nel regolamento del Festival una norma che vieti l’uso di parolacce! Sia ben chiaro: sono contrario alle censure, ma credo che questo sia l’unico modo di sbarrare la strada ai furbi e all’uso insulso delle parolacce.
Del resto, non è un caso se dei maestri nell’uso umoristico delle parolacce, Elio e le storie tese, quando hanno partecipato a Sanremo (1996) hanno presentato una canzone, “La terra dei cachi”, che denunciava gli stessi problemi di Masini… Non contiene neppure una parolaccia, ma la trovo molto più incisiva e graffiante.

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