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Non tutte le parolacce sono offese

“La Cassazione sdogana le parolacce”. “Frasi scurrili? Al parcheggio si può”. O addirittura: “Dire parolacce in auto non è più reato”.

E’ stata presentata in questi termini una sentenza della Cassazione (la n° 15710 dell’8 aprile 2014). Peccato, però, che la sentenza NON dica niente di tutto questo questo. Stabilisce invece un altro principio, del tutto normale anche se spesso trascurato: ovvero, che non tutte le parolacce sono offese.

L’episodio valutato dai giudici della suprema Corte risale al 2010: un uomo di San Pietro Vernotico (Brindisi) aveva trovato il passo carrabile ostruito dall’auto di una donna. Non riuscendo a uscire con la propria auto, colmo di rabbia, le aveva detto: “Mi hai cacato il c….”.

La donna lo aveva denunciato per ingiuria. Ma la Cassazione lo ha assolto, considerando quella frase come “un’espressione di fastidio e non di disprezzo per la persona in sé. Non è punibile, infatti, il linguaggio volgare in sé, ma solo l’offesa: ossia quando la volgarità viene usata per ledere l’onore di un’altra persona”.

La distinzione (già nota ai lettori del mio libro) è lampante: ci sono alcune parolacce (“somaro”, per esempio) che attaccano la dignità, l’autostima di un altra persona. Sono gli insulti. Altre parolacce, invece, sono usate per esprimere emozioni forti: rientrano in questa categoria le imprecazioni (“porca vacca”) ma anche i modi di dire come quello valutato dai giudici della Cassazione. In questo caso, le parolacce hanno una funzione catartica: servono come enfasi, valvola di sfogo, infrangendo un tabù linguistico. Si può discutere sulla volgarità, sulla scarsa educazione o eleganza, ma nessuno si può sentire direttamente offeso da queste espressioni. Che spesso sono una reazione automatica, un riflesso neurologico a uno stato di rabbia intensa. Se non ci credete, provate a darvi una martellata su un dito: scommettiamo che non vi uscirà dalla bocca una frase elegante?

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