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Schifosi, lecchini, fancazzisti: basta la parola?

Vomito: personaggio di Titeuf, un cartoon svizzero

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Negli ultimi mesi, la Cassazione ha sfornato diverse sentenze interessanti sulle parolacce. Interessanti perché, in molti casi, demoliscono alcuni luoghi comuni sul confine fra l’uso lecito e illecito degli insulti.
E perché fanno riflettere su quali sono i confini della nostra libertà di espressione.
Ma entriamo in camera di consiglio…
La suprema Corte, il 2 agosto 2007, ha stabilito  (sentenza 31451) che dire «Mi fai schifo» costituisce il reato di ingiuria, ovvero è un’offesa all’onore (=valore sociale) e al decoro (=doti fisiche, intellettuali e professionali) di una persona. In sostanza, dire “Mi fai schifo” equivale a una parolaccia. Strano vero? Non molto, se cerchiamo di studiare il caso più da vicino.
L’autore della frase era stato assolto dal Tribunale d’appello di Monza: il giudice aveva ritenuto che l’uso del pronome “mi” attenuasse l’offesa, trasformandola in una “opinione soggettiva”. Ma la Cassazione ha respinto la tesi: innanzitutto, perché, se fosse valido il principio, basterebbe “anteporre a qualsiasi espressione ingiuriosa, anche la più graffiante o spregevole, la particella pronominale ‘mi’ (esempio: “Mi fai cagare”) per rendere la condotta illecita esente da sanzione penale”.
Ma soprattutto, dicono i giudici, “ogni espressione ingiuriosa reca, in sé, un riflesso congetturale, esprimendo l’opinione o la valutazione di disprezzo di chi la proferisce”. Ogni insulto, infatti, è un giudizio (negativo!) su una persona. Ma perché “Mi fai schifo” è un’offesa? Basta tradurre il reale significato dell’espressione: Mi fai schifo=Mi disgusti=Sei repellente=Sei una m e r d a… Quindi, la sentenza della Cassazione non fa una piega!

Ugualmente sorprendenti (ma solo in apparenza) altre 3 sentenze con cui la Cassazione ha condannato le seguenti espressioni:
1) “Tu non fai un cacchio”: il datore di lavoro all’impiegato (sentenza 42064 del 14 novembre 2007);
2) “Siete una massa di lazzaroni, guadagnatevi lo stipendio”: un cittadino a un impiegato pubblico (sentenza 43087 del 21 novembre 2007);
3) “Leccaculo”: un’avvocatessa che criticava le scelte elettorali di alcuni colleghi (sentenza 43060 del 24 novembre).

Che cos’hanno in comune queste tre sentenze, in apparenza così diverse?
Il principio della “continenza espressiva” e della precisione. Ovvero: le leggi italiane garantiscono la libertà di critica anche aspra, ma a patto che non si traduca in attacchi gratuiti, generici e svilenti verso una persona in generale.
In pratica, si può criticare qualcuno, ma a 2 condizioni: che si indichi in modo concreto e circostanziato (e documentato) in che cosa ha sbagliato; che non si disprezzi “l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli”.
Quindi, invece di dire “Non fai un cacchio” o “lazzarone” si deve dire: “Non hai svolto la pratica numero 234 che ti avevo affidato”; invece di dire “leccaculo”, si dica: “Sei stato succube di Tizio nel votare lui invece di Caio”, e così via.
Le nostre leggi, insomma, vogliono garantire sì la libertà di pensiero, ma in modo rispettoso. Soprattutto al lavoro. Ma, per fortuna, ci sono alcune eccezioni  che tutelano anche il diritto di… sfogarsi. Soprattutto nelle circostanze in cui si agitano le emozioni più forti: lo sport, la politica e il traffico stradale. O quando è comprensibile che saltino i nervi: come racconto in Parolacce, la Cassazione ha assolto un uomo che aveva dato del “rompicoglioni” a un vicino di casa: dato che… glieli aveva “rotti” per davvero, la reazione – per quanto volgare – era giustificata. Com’è giustificata tutte le volte in cui si subisce un torto… E che c a z z o! A proposito: le imprecazioni (cioè le parolacce dette per sfogo, come punto esclamativo, senza offesa per nessuno) sono depenalizzate dal 1999. Si possono dire senza commettere reati (tranne le bestemmie). Porca vacca!

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