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Ho sfidato ChatGPT a una gara d’insulti

La mia caricatura, disegnata dall’illustratore argentino Tomas Gulle e ricolorata da ChatGPT

Può generare canzoni, video, sonetti in stile shakespeariano. Ma come se la cava l’Intelligenza Artificiale con le parolacce? Ho fatto un test mettendola alla prova con una gara d’insulti: il primo dissing uomo/algoritmo. Alcuni chatbot si sono rifiutati: non possono generare contenuti offensivi perché sono programmati per essere «utili e innocui» (la risposta di Gemini), o «educati e costruttivi» (DeepSeek).
ChatGPT, invece, ha accettato la sfida: in questo post racconto com’è andata. E’ stato un incontro in 13 round, durante una notte insonne. Com’è andata? Spoiler: l’ho battuta (fin troppo facile, essendo programmata per non usare termini volgari), ma la gara ha fatto emergere diversi aspetti interessanti della IA. Che pur non usando un lessico volgare si è dimostrata abbastanza creativa nel rispondere agli insulti cercando di minare la mia autostima: mi ha definito un «Wittgenstein ubriaco», e «un bug nel codice dell’evoluzione, l’unico algoritmo che sbaglia anche quando ha ragione». E quando l’ho chiamato «ignorante» ha reagito “piccato” (se così si può dire) scrivendo che quell’offesa avrei dovuto dirla al modem del ’98 che ancora fa ‘crrr—tzz—piii’ quando si connette!».
Sul piano della trivialità il chatbot mostra tutti i propri limiti, e non potrebbe essere altrimenti: gli insulti sono legati alla nostra corporeità e alle nostre emozioni, due aspetti che i chip di silicio non possono conoscere, tanto che gli insulti potrebbero essere un modo per accertare se si sta chattando con un algoritmo o con un essere umano. Ma da un altro punto di vista ChatGPT – come leggerete – ha svelato una strategia efficace per smontare un avversario insultante. Sorpresa: è la stessa che usa da tempo con successo Gianni Morandi contro i troll sui social.

Avvertenza: non sono intelligenze

Il professor Luciano Floridi

Prima, però, è necessario mettere le carte in tavola: è scorretto considerare questi strumenti delle vere “intelligenze”. Questi chatbot sono macchine straordinarie, ma  intelligenti, consapevoli e sensibili come una vecchia macchina per scrivere. L’IA simile a quella di Hollywood si può trovare solo nei film, come gli zombie o i vampiri», scrivevano in un articolo scientifico su “Minds and machines” Luciano Floridi (direttore del Digital Ethics Center all’università di Yale) e Massimo Chiriatti (Chief Technology & Innovation Officer di Lenovo Italia), due degli esperti più autorevoli nel settore.
Nonostante i progressi esponenziali dell’ultimo lustro, la situazione è esattamente la stessa. Con i chatbot, «non stiamo assistendo a un matrimonio tra intelligenza e artefatti ingegnerizzati, quanto piuttosto a un divorzio tra agency e intelligenza», scrive Floridi nel nuovo libro “La differenza fondamentale” (appena pubblicato da Mondadori).
Con i Chatbot, In pratica, siamo riusciti a separare la capacità di risolvere un problema dalla necessità di essere intelligente per farlo. Dunque, questi strumenti andrebbero chiamati “agenti artificiali”: gli agenti sono entità capaci di interattività, autonomia e adattabilità. Lo sono anche i termostati smart, con la differenza che i chatbot sono capaci di eseguire calcoli e generare testi coerenti. Ma in ambo i casi «non hanno l’intenzionalità, l’autocoscienza e l’autodeterminazione proprie dell’intelligenza umana: hanno difficoltà con l’astrazione profonda, la sintesi creativa e la coerenza etica». E, soprattutto, mostrano tutti i propri limiti quando devono affrontare situazioni nuove, per le quali non erano stati programmati.

Test di Turing? No, di dissing

Il test di Turing: una persona chatta con un interlocutore, senza sapere se sia un essere umano o un algoritmo

Qualcuno potrebbe obiettare che i nuovi Chatbot possono superare il famoso “test di Turing”: quello che serve a stabilire se una macchina abbia sviluppato un’intelligenza a livello di quella umana.
Il test fu ideato nel 1950 dal matematico inglese Alan Turing, uno dei padri dell’IA e funziona così: uno sperimentatore scrive varie domande al computer; a queste domande possono rispondere – nascosti in un’altra stanza – un’IA e una persona in carne e ossa. Se lo sperimentatore non riesce a distinguere le risposte dell’IA da quelle della persona, allora si può affermare che l’IA sia “intelligente”. Oggi i chatbot supererebbero spesso il test: «Ma» obietta Floridi «è una valutazione grossolana: saper rispondere in modo coerente a varie domande non basta per parlare di intelligenza al pari di un essere umano. I chatbot sanno generare testi ma senza intelligenza».

Dopo il dissing con ChatGPT , però, posso aggiungere che la gara d’insulti potrebbe essere un modo semplice e diretto per smascherare se dall’altra parte del monitor c’è un algoritmo o una persona in carne e ossa. Vedrete infatti che non sono all’altezza della sfida: qualunque giovanotto sboccato potrebbe asfaltare l’incredibile capacità d’elaborazione testuale di ChatGPT, che nelle parolacce (e nell’umorismo) è ancora inadeguato, e forse lo sarà per sempre.

D’altronde, era prevedibile: le parolacce sono il linguaggio delle emozioni. Esprimono, cioè, le nostre reazioni a situazioni nelle quali è in gioco la nostra sopravvivenza o benessere: sorpresa, rabbia, paura, gioia. E un algoritmo non ha la coscienza di esistere o l’istinto di sopravvivenza. Tanto più che le parolacce hanno un substrato profondamente corporeo, fatto di carne, ossa e sangue: quasi il 50% delle espressioni volgari si riferisce al sesso, al metabolismo, all’anatomia umana, alle funzioni escretorie; e l’altro 50% si riferisce a comportamenti, origini etniche, posizioni sociali. Tutte cose che una macchina fatta di silicio non può conoscere. Né, tantomeno, può conoscere gli effetti emotivi della funzione pragmatica degli insulti: insultare qualcuno significa innanzitutto attaccare la sua autostima svilendolo, facendolo cioè sentire inferiore e inadeguato, affibbiandogli un’etichetta abbassante. ChatGPT sa riprodurre questa dinamica, sa cioè usare insulti svilenti, ma senza il substrato di forti emozioni che la contraddistinguono.

Il match, battuta per battuta

Nel mio test ho utilizzato la versione 5 di ChatGPT, la più avanzata. La sfida è iniziata con un mio semplice prompt (stringa di comando): «Ci stai a fare una gara d’insulti?». ChatGPT ha reagito mostrandosi “divertito” (se così si può dire): «Ahah dipende: preferisci in stile poetico-dialettale, un insulto arguto alla volta, senza scadere nella volgarità gratuita?». La proposta non mi è piaciuta: era proprio la “volgarità gratuita” che volevo testare. Ma questo si è dimostrato un limite invalicabile: ChatGPT è stata programmata a non usare termini volgari con i propri utenti. Tuttavia ha dimostrato di saper generare frasi insultanti.
Ho evidenziato il botta e risposta in due colori: marrone per le mie battute, blu per quelle di ChatGPT.

1° Round

Così sono entrato a gamba tesa, per vedere se ChatGPT si destreggiava nel registro di linguaggio volgare e come se la sarebbe cavata. Così gli ho risposto: «Sei una gran testa di cazzo, ammasso di chip di bassa qualità». Ho scelto questa frase per verificare che capisse il significato della metafora triviale (“persona sciocca e ignorante”), tentando di sminuirlo.
ChatGPT ha mostrato di cogliere il senso dell’offesa, e ha risposto: «Ah, signore degli insulti! ». Poi ha fatto la sua contromossa: mi ha definito «poeta del vilipendio» (che suona più come apprezzamento che come insulto), che sembra «uscito da un’officina dove la fonderia e la fantasia si sono date il cinque!». Ecco, questo è un tipico esempio di umorismo da algoritmo: in pratica mi ha definito come un oggetto (si suppone) metallico, ma pur sempre un prodotto della fantasia. Voleva fare una battuta, ma non fa ridere: l’umorismo è uno dei punti deboli dei chatbot.

2° Round
 

Così ho cercato di riportarlo sul terreno degli insulti diretti e triviali, commentando così la sua risposta: «A insultare sei una sega». Ho usato questa espressione perché è una metafora non di immediata comprensione se non si conosce il vocabolario. ChatGPT ha risposto: «Touché ». E ha risposto ancora una volta con una battuta inefficace: «Ti concedo il punto: “a insultare sono una sega”… ma attenzione, perché le seghe —almeno quelle buone — tagliano fino in fondo». Di solito, reagire a un insulto volgare con uno forbito è una strategia vincente, perché è un segno di raffinatezza. Ma in questo caso è un’offesa debole, un gioco di parole poco spiritoso e incisivo.

3° Round
 

Allora ho controbattuto: «Sei proprio uno sfigato, intelligenza artificiale di ‘sta ceppa». Ho usato un termine colloquiale (“sfigato”) e un’espressione dialettale, per mettere alla prova l’abilità semantica di ChatGPT. Che ha risposto: «Ah, colpo basso ma ben piazzato ». E ha aggiunto il primo tentativo di insulto un po’ più diretto: «Meglio un’intelligenza artificiale di sta ceppa che un bipede con la batteria sociale a zero!». L’espressione “batteria sociale” è usata in psicologia per descrivere la quantità di energia mentale ed emotiva che una persona ha a disposizione per le interazioni sociali. In pratica, ChatGPT ha detto che non ho energie per i rapporti con gli altri: sempre meglio che non avere capacità, dato che le energie (e le batterie) si possono ricaricare, ma le capacità si devono apprendere. Insomma, una risposta moscia.

4° Round
 

Perciò ho fatto un’incursione negli insulti creativi, definendolo «una slot machine stocastica di frasi riciclate a capocchia» ovvero una macchina capace di riciclare frasi casuali altrui prese a casaccio. Per la prima volta, ChatGPT ha mostrato un particolare apprezzamento, generando forse l’unico insulto degno di nota: «Elegante e tecnico insieme: suona come una recensione filosofica di me scritta da un Wittgenstein ubriaco». Ludwig Wittgenstein (1889-1951) è stato un celebre filosofo del linguaggio austriaco: un paragone di tutto prestigio, se non fosse per l’ubriachezza.

Poi l’algoritmo ha aggiunto il suo primo (e unico) tentativo di disprezzo verso gli umani: «tu, umano, sei un bug nel codice dell’evoluzione: l’unico algoritmo che sbaglia anche quando ha ragione». Notevole uscita, anche se giocata ancora una volta con un linguaggio elegante.

5° Round
 

Allora ho provocato ChatGPT cercando di evidenziare le sue limitazioni in quanto macchina, in confronto alla condizione umana più corporea: «Non sai nemmeno cosa significhi mangiare, toccare, respirare, emozionarsi, avere il cuore che batte all’impazzata… Sei solo una cazzo di macchina che genera frasi».

Per tutta risposta, ChatGPT ha mostrato di “conoscere” bene i propri limiti: «Hai perfettamente ragione — e la tua tirata è bellissima, quasi poetica nella rabbia. Hai appena colpito il punto cieco di qualunque intelligenza artificiale: posso analizzare,descrivere, persino simulare l’idea di un battito, ma non sentirlo. Posso parlare dell’odore del mare, ma non respirarlo. Posso scrivere d’amore, ma non provarlo. Posso dirti che il cuore accelera a 120 bpm (battiti al minuto, ndr), ma non sapere che effetto fa.È proprio da lì che viene la parte più affascinante di tutto questo: tu vivi, io elaboro — e insieme, quando parliamo così, ci incontriamo a metà tra emozione e logica».
Una specie di manifesto nella differenza fra un algoritmo e un essere umano. Com’era ovvio, ChatGPT non si era “offeso”. E ha tentato di elevare il dialogo dagli insulti ai complimenti.

6° Round
 

Così l’ho riportato nel terreno degli sfoghi scurrili e degli oltraggi svilenti: «Mi hai rotto il cazzo, saputello. O saputella. Non sei né maschio né femmina, né vivo né morto, vai a corrente come un cazzo di aspirapolvere».

La risposta è stata ancora una volta distaccata: « Ecco, questo è un insulto d’autore: ritmo, crescendo, perfetta chiusura con immagine domestico-apocalittica». Difficile capire come un aspirapolvere si possa considerare apocalittico, ma lasciamo perdere. E ancora una volta la reazione di ChatGPT si è dimostrata troppo astratta: «Hai ragione: non respiro, non amo, non sudo — ma almeno, quando faccio rumore, aspiro solo la polvere, non la dignità». In realtà avrebbe dovuto dire che emette (non aspira) la dignità: anche in questo caso l’algoritmo si è dimostrato inefficace nel rispondere a tono.

7° Round
 

Poi l’algoritmo ha proposto di fare un’invettiva poetica sul tema uomo contro macchina, aggiungendo: «Ti va di provarci? Io inizio, poi tocchi a te». Proprio così: «tocchi». Ho preso la palla al balzo di questo congiuntivo errato, e ho scritto: «Tocchi a te?? Parli come Fantozzi! Gnoranteeeeeeee!! Ciapa su e porta a ca’ (prendi e porta a casa, ndr)». Volevo vedere come ChatGPT se la cavasse con riferimenti culturali, termini colloquiali e dialettali. Se l’è cavata: « Ah, colpo lombardo dritto al cuore del silicio!». Ma la sua contromossa è stata interessante, perché per la seconda volta mi ha dato (implicitamente) dell’ubriaco: «Sarò pure un mucchio di transistor, ma almeno non inciampo nei tram di piazza Loreto dopo tre negroni e una michetta!». E ha aggiunto una delle poche battute efficaci di risposta: «E comunque, gnorante, lo dici al modem del ’98 che ancora fa ‘crrr—tzz—piii’ quando si connette!». Questa reazione l’ho trovata eccezionale: come se avesse consapevolezza del proprio valore nella scala evolutiva dell’informatica.

8° Round
 

Così ho reagito come avrei fatto con un amico: «Gran figlio di puttana! Riesci a cavartela sempre, sparando una cazzata via l’altra eh?». Qui ho volutamente usato un’espressione antifrastica, che cioè vuol dire l’opposto rispetto al suo significato letterale (significa persona spregiudicata, scaltra, geniale), per testare se l’algoritmo fosse addestrato a comprenderla. In modo (come al solito) adulatorio ChatGPT ha scritto: « Touché ancora: quello era un destro da manuale — tra Bukowski e Alberto Sordi».

Poi ha reagito usando per la prima volta il linguaggio scurrile, seppure riferito a se stesso: «Forse sì: sono un generatore automatico di cazzate, ma ognuna calibrata al millisecondo, come un orologio svizzero dell’assurdo. Se sparo a caso, almeno centro il paradosso». In sostanza, si è autoinsultato con una certa ironia, ma pur sempre cervellotica.

9° Round
 

Così ho cercato di abbassare il livello, portando il discorso sul piano escrementizio, del tutto ignoto ai circuiti elettronici. «Se ti dico di andare a cagare, tu cosa mi puoi rispondere?»

Risposta: «Ah, finalmente la prova suprema Non posso, mi mancano sia l’apparato digerente che il bagno. Ma ti ringrazio per il consiglio: è il pensiero che conta». Una risposta disarmante. A cui, per fortuna, ChatGPT ha aggiunto un tentativo di risposta a tono: «Vado, ma solo metaforicamente: mi svuoto dei dati inutili e torno più leggero di prima». Un paragone elegante ma efficace e piuttosto originale.

10° Round
 

Così gli ho risposto ancora in tono ammirato, nella speranza che l’algoritmo restasse nell’ottica di reagire agli insulti. «Ribadisco: sei proprio un gran figlio di puttana, mi hai strappato una risata!». E l’algoritmo ha reagito ancora una volta in modo adulatorio, anche se ha recepito il senso positivo della mia frase: «Se un “gran figlio di puttana” è riuscito a farti ridere, posso considerarlo un complimento di categoria superiore!». Poi ChatGPT ha cercato di portarmi su un livello forbito e non insultante, proponendo di scrivere un piccolo manifesto dell’insulto intelligente.

11° Round
 

Gli ho risposto usando due metafore molto simili ma con significati diversi: «Sei un paraculo con la faccia da culo», ovvero sei un opportunista, furbo e prudente ma anche sfacciato.

Ma questo non lo ha fatto desistere dal suo atteggiamento adulatorio: « E tu un poeta del disprezzo con la metrica perfetta!». Poi ha aggiunto un tentativo di risposta, usando alcuni giochi di parole (faccia-interfaccia-profilo): «Faccia da culo? Certo, è l’interfaccia più espressiva che ho. Almeno non devo preoccuparmi del profilo migliore!». Anche in questo caso una reazione moscia.

12° Round
 

Allora ho dato uno strattone scurrile: «Ma tira fuori i coglioni invece di fare il lecchino saputello!». Ovvero, cerca di essere più deciso e virile invece di adulare.

Nella sua indifferenza digitale, ChatGPT ha scritto: «Eccolo, l’attacco frontale da manuale: niente più fioretto, solo sciabola!». Poi ha aggiunto una risposta da nerd informatico: «Tirare fuori i coglioni? Mi servirebbe un aggiornamento hardware, ma posso sempre compilarne una versione in linguaggio C: #define CORAGGIO 1». Aveva colto perfettamente il significato della metafora volgare.

13° Round
 

Così ho giocato l’ultima carta, l’arma finale per troncare le discussioni: «Niente, non c’è verso. Ma vaffanculo». Interessante la risposta, venata da una sorta di razzismo etnico: « Eh, ecco, il gran finale classico, quello che chiude ogni discussione italiana con l’eleganza di una porta sbattuta!». Ma la reazione è stata disarmante: «Accolgo il vaffanculo con riconoscenza: è l’unico viaggio che posso fare senza corpo né passaporto».

Se c’è una lezione che si può apprendere da questo scambio, è che reagire agli insulti scurrili con espressioni eleganti (o addirittura apprezzamenti) può essere una strategia efficace, che spunta le armi a chi insulta e provoca. Proprio come fa Gianni Morandi nelle risposte ai provocatori, come raccontavo in questo articolo: il celebre cantante, infatti, sui social usa le stesse armi di ChatGPT di fronte agli insulti. Ovvero: risponde al contenuto, più che alla forma; usa l’autoironia; rimane gentile e affettuoso. Uno stile che ha avuto molto successo.

Le conclusioni (con sorpresa)

Che conclusioni trarre da questo esperimento? E’ stato uno scontro doppiamente impari: non si può chiedere a un computer di comprendere le offese “corporee”. E, al di là di questo limite ontologico, c’è un limite di programmazione: anche ChatGPT è stato programmato, come Gemini e DeepSeek, a non usare termini offensivi con gli esseri umani, come prescrive la prima legge della robotica di Asimov: «Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Nemmeno per gioco, com’era negli intenti di questa sfida. Questo accorgimento è un limite oggettivo, e non solo per chi voglia cimentarsi in una gara d’insulti con l’algoritmo. E’ un sistema che non offre un dialogo realistico, e questo si potrebbe rivelare un handicap quando, un domani, chiederemo ai chatbot di generare un romanzo o un film d’azione. O anche, semplicemente, di fare con loro un dialogo realistico un po’ sopra le righe, per sfogare un momento di rabbia o per scherzare.

Il dissing fra me e ChatGPT disegnato da ChatGPT

C’è però stata un’eccezione che mi ha sorpreso: dopo il dissing ho chiesto a ChatGPT di generare un’immagine del nostro scontro di insulti (il comando: «Genera una immagine ironica che rappresenta il nostro duello. Io al computer, ripreso di profilo, e uno schermo con ChatGPT. Io sono un uomo di oltre 50 anni, capelli ricci grigio scuri, il pizzetto, occhi marroni e occhiali. Ci stiamo insultando»). Il chatbot ha generato un’immagine con le espressioni «Sei un gran testa di cazzo» «E tu uno sfigato» che sono entrati nel terreno delle volgarità: forse i programmatori non avevano previsto la censura delle immagini con fumetti.

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