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Cazzetti, grattaculi e tette di vergine: le parolacce a tavola

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Uno slogan ammiccante al sesso per pubblicizzare un cibo.

Si può parlare di cibo e parolacce? In effetti, un legame fra alimenti e volgarità c’è: per descrivere una donna attraente, la definiamo una “bella gnocca“, e in portoghese comer (mangiare) significa anche scopare. Del resto, fu Freud a scoprire che la nostra prima fonte di piacere (fin da neonati) è la bocca, attraverso il succhiare. In più, circa il 10% dei nomi del sesso deriva da metafore di cibi e vegetali (fica, finocchio, banana, fava, patata, pisello, etc), come raccontavo qui: l’aspetto degli alimenti, infatti, evoca quello dei genitali.
Ma è possibile anche il processo contrario? Ovvero: esistono cibi chiamati con nomi scurrili? Mi sono messo alla ricerca di vere “ricette immorali”, per confezionare un menu tutto all’insegna delle parolacce. Ne è venuto fuori un menu di 20 portate, dagli antipasti al dessert. Fatto di cibi realmente esistenti, nati dalle tradizioni culinarie (ops!) locali, soprattutto del Lazio. I piatti che leggerete evocano soprattutto parti del corpo (zone erogene): mangiarli significa fare una specie di rito afrodisiaco cannibale. Un modo per pregustare (o sostituire simbolicamente) un banchetto erotico.
Nel prossimo post, troverete anche un’adeguata carta dei vini da abbinare… Buon appetito!

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SALTINCULO ALLA MIGNOTTA E ALTRI PIATTI DI FANTASIA
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L’ingresso del ristorante “La parolaccia” a Roma.

Sul Web circolano diversi menu goliardici (soprattutto per i matrimoni) che elencano piatti come “sveltine alla barbona”, “ripassata di tettine alla pomiciona”, “smaneggiata di chiappe alla veneziana”: ma sono pietanze del tutto inventate, giusto per strappare una risata.
Nemmeno al celebre ristorante “Da Cencio La parolaccia” di Roma ci sono piatti volgari
: questo locale è chiamato così dal 1951, perché durante i pasti i camerieri intonano canzoni popolari sboccate, intrattenendo i clienti. Ma il menu è a base di comuni piatti della tradizione romana, dall’amatriciana all’abbacchio.

Solo in un film del 1981, “Fracchia la belva umana“, il regista Neri Parenti reinventò fantasiosamente questo locale – ribattezzandolo trattoria “Da Sergio e Bruno – Gli incivili” – nel quale si offriva, oltre a una serie di insulti ai clienti, anche un menu sboccato, a base di “saltinculo alla mignotta, piselloni alla mandrillo e fagioli alla scureggiona” (vedi spezzone qui sotto). Anche questi, però, sono piatti inesistenti.

ANTIPASTI

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Cazzimperio con sedano, rape e peperoni (foto rossella/Shutterstock).

CAZZIMPERIO:  è una salsa a crudo, diffusa a Roma, fatta con olio d’oliva, sale e pepe, in cui si possono intingere ortaggi crudi (sedano, carote, carciofi). Insomma, il celebre pinzimonio: ma che c’entra l’organo sessuale maschile? In realtà nulla: è solo un’assonanza, dato che il termine deriva da cazza (mestolo), che peraltro è una delle possibili etimologie del termine cazzo. Lo stesso ragionamento vale per un piatto di verze e maiale della tradizione lombarda, la cazzuola (cassoeula): anche in questo caso il termine evoca il mestolo.

 

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Cazzilli di patate.

CAZZILLI DI PATATE. Sono un piatto della cucina palermitana, e si gustano solitamente insieme a pane e panelle (frittelle di farina di ceci): un tipico piatto da “strada”. I cazzilli (così chiamati per la loro forma fallica) sono crocchette: purea di patate bollite e schiacciate, condite con sale, pepe, prezzemolo, foglioline di mentuccia fresca e un pizzico d’aglio tritato; il composto viene amalgamato e ridotto in piccoli tocchi, e poi fritto in un padellone colmo d’olio bollente.

PRIMI PIATTI

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Spaghetti alla puttanesca.

SPAGHETTI ALLA PUTTANESCA:  è un piatto napoletano, detto anche “aulive e cchjapparielle” (olive e capperi). Gli spaghetti sono preparati con un sugo a base di pomodoro, olio d’oliva, aglio, olive nere di Gaeta, capperi e origano. Esiste anche una variante laziale con l’aggiunta di acciughe sotto sale. Sull’origine del nome, tante congetture e nessuna certezza: vista l’estrema semplicità e povertà del piatto, forse era davvero diffuso nei bordelli.

Pasta alla checca.

PASTA ALLA CHECCA:  è un piatto romano, una semplice pasta al sugo con olive e aromi, tra cui prezzemolo, basilico, pepe e semi di finocchio. Ed è proprio la presenza di questi ultimi ad aver dato il nome alla ricetta, nata alla fine degli anni ’60.

 

 

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Bigoli appena impastati.

BIGOLI: da baco, vermicello. I bigoli sono una pasta fresca lunga e sottile, a base di farina integrale. Il termine, nel Nord Italia, designa anche il membro virile (ed è usato come sinonimo di “persona sciocca”). Simili ai bigoli sono anche i “pici” toscani, ma non derivano da “picio” (piccolo, membro virile), bensì dal fatto che la farina è appiccicosa essendo composta da farina, uova e acqua.

 

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Un piatto di cazzetti d’angelo.

CAZZETTI D’ANGELO: è una pasta di forma fallica. Il loro nome ricalca (in termini osceni) i capelli d’angelo, spaghetti finissimi. Forse in origine i cazzetti avevano una forma vagamente fallica, fino a quando qualcuno ha pensato di renderli più espliciti, riproducendo in modo più preciso l’organo maschile (completo di zebedei). Difficile ricostruire la provenienza: molti siti li descrivono come originari di Roma. Forse si sono diffusi come souvenir per turisti stranieri goliardici.

 

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Fichette tricolori.

FICHETTE TRICOLORI: sono nate sicuramente dopo i cazzetti, come operazione di marketing complementare (potremmo dire per “par condicio”). La pasta riproduce, nei limiti possibili dell’impasto, l’anatomia della vulva.

 

 

 

 

PISAREI E FASÖ: sono gnocchetti di farina e pangrattato conditi con un sugo a base di fagioli, lardo, cipolla e pomodoro. E’ una ricetta piacentina: il nome “pisarei” deriva infatti dal termine dialettale “pisarell”, piccolo pene, per la loro forma fallica.

 

 

SECONDI PIATTI

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Palle del nonno.

PALLE DEL NONNO: è un salame di maiale, originario della zona di Norcia. Deve il suo goliardico nome alla forma dell’insaccato: ricorda i testicoli cadenti degli anziani.

 

 

 

 

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Coglioni di mulo.

COGLIONI DI MULO: questo insaccato (un salame di maiale con un cilindro compatto di lardo) è originario della zona di Campotosto (Abruzzo), e il nome ha un’origine simile alla precedente: la forma ricorda i grossi testicoli di un mulo. E’ noto anche come “mortadella di Campotosto” e ha oltre 500 anni di storia.

 

 

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Culatello di zibello e burrata.

CULATELLO DI ZIBELLO: è un salume Doc della zona di Parma. E’ fatto con la parte migliore del lombo di maiale. Il suo nome è un diminutivo di “culo”, anche se in realtà questo salume è ricavato dai muscoli posteriori ed interni della coscia del suino, rifilati fino ad ottenere la classica forma a “pera”. In alternativa al culatello si può proporre la culatta: un culatello con cotenna.

 

 

 

Un bel piatto di zizzona.

ZIZZONA: in dialetto campano, il termine significa “tettona“. E infatti questa mozzarella è un formaggio extra large tipico della zona di Battipaglia (Salerno): pesa da 1 kg a 15 kg.E’ una variante della “mozzata” di bufala di Battipaglia, una grossa mozzarella di 5 kg: è chiamata così per il latte che ne fuoriesce una volta tagliata, e soprattutto perché somiglia ad un seno di donna con tanto di capezzolo al centro. La zizzona, prima nota solo a livello locale, è diventata celebre grazie al film “Benvenuti al Sud” (2010): ora è diventata un marchio registrato (ma non un marchio Dop perché pesa più di 800 grammi), e ha ispirato il Festival della Zizzona, ricco di eventi goliardici compresa l’elezione di “Miss Zizzona”, una giovane ragazza dal seno prorompente.

CAZZOMARRO: è un piatto pugliese, diffuso anche in Basilicata. Si tratta di un involtino che contiene interiora di agnello o capretto (cuore,  fegato, polmoni e aanimelle). Si mangia cotto al forno o alla brace, accompagnato da patate, verdure o funghi. A dispetto delle apparenze, il nome non deriva dalla forma fallica dell’involtino: deriva invece dalla parola dialettale “cazzare” ossia schiacciare (nella ricetta le interiora vengono schiacciate per valorizzare al massimo profumi e gusto) e dal latino “marra”, ossia mucchio di sassi (l’involtino ricorda le pietre).

 

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Un piatto di brandacujun.

BRANDACUJUN: è un piatto tipico della cucina ligure, a base di patate e stoccafisso. Lo stoccafisso è lessato con patate in acqua salata; una volta scolata l’acqua, si aggiungono aglio, prezzemolo, olio extravergine di oliva taggiasca, succo di limone, sale, pepe; poi, una volta posto il coperchio sulla pentola, questa viene “brandata” ovvero scossa con energia fino al disfacimento e all’amalgamazione degli ingredienti.  La tradizione narra che fosse una preparazione tipica dei navigli liguri: “Branda, cujun! Branda, che ciu ti u brandi ciu u l’è bon!” (Scuotilo, coglione! Scuotilo che più lo scuoti più è buono!). Oppure, più probabilmente, l’espressione può alludere alla noia di mantecare il pesce: una procedura che “branda i cujun”.

 

Il pollo cucito con dentro la farcitura.

POLLU CUSUTU ‘NCULU (POLLO CUCITO NEL CULO): è un piatto tipico della zona di Copertino (Lecce). Ed è diventato celebre grazie a una canzone trash di Checco Zalone, che l’ha usato per fare una parodia dello stile musicale dei Negramaro: trovate il video alla fine di questo articolo. Qui la ricetta: è un pollo ripieno, che è insaporito col peperoncino. Si prende un pollo, lo si priva delle interiora che vengono rosolate in olio con aglio, cipolla e prezzemolo, con l’aggiunta di vino, capperi e pomodorini. Alle interiora cotte si aggiungono pane bagnato, formaggio e uova intere. Il composto è infilato dalla parte posteriore del volatile, che poi viene cucita con filo di cotone. Il pollo viene cotto in padella a fuoco basso per un’ora e mezza, aggiungendo cipolla, pomodori e vino bianco.

 CONTORNI

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Grattaculi appena colti.

GRATTACULI: sono i tanni, spighette che nascono sopra le piante delle zucchine. Di queste piante vengono presi i tanni più teneri, formati da foglie, rametti cavi e steli cui sono ancora attaccati fiori in boccio e zucchine di varie dimensioni. Hanno ha un sapore deciso e amaro, esaltato dalla cottura con olio ed aglio. Sono diffusi nel Lazio e ribattezzati con l’appellativo di grattaculi per evocare il fastidio che possono dare al deretano di chi si china a raccoglierli.

 

DESSERT

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Due versioni di “tette di vergine””: sopra con pasta frolla, sotto con marzapane.

TETTE DI VERGINE (MINNI DI VIRGINI): sono un dolce tradizionale di Sambuca di Sicilia (Agrigento), fatto di pasta frolla e con un ripieno di crema di latte,zuccata, scaglie di cioccolato e cannella. Le minni – strano a dirsi – sono nate nei conventi delle suore di clausura: non hanno intenti erotici, perché con tutta probabilità ricordano il martirio di Sant’Agata, siciliana uccisa nel 251. Non volendo rinnegare la fede cristiana, Agata fu imprigionata e le fu strappato il seno con le tenaglie, tanto che spesso è raffigurata coi i seni recisi deposti su un piatto.

 

 

Le sise delle monache.

SISE (TETTE) DELLE MONACHE: è un dessert tipico tipico abruzzese prodotto a Guardiagrele, in provincia di Chieti. Sono dolci composti da due strati di pan di spagna, farciti da crema pasticcera. Sono chiamati in questo modo perché la loro forma ricorda quella dei seni. Ma invece di due mammelle, sono 3, e questo fatto è stato spiegato in vari modi: secondo una leggenda, deriva dall’abitudine di alcune suore abruzzesi che inserivano al centro del petto una protuberanza in modo da rendere meno evidenti i loro seni. Ma è più probabile che la loro forma riproduca i tre monti più alti della regione: il Gran Sasso d’Italia (2912 m), la Majella (2793 m) e il Sirente-Velino (2487 m). Non a caso, il dolce è conosciuto anche con il nome di Tre monti.

 

FRUTTA

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Una pesca “poppa di Venere”.

POPPA DI VENERE: è una varietà antica di pesca, d’origine italiana. Il  frutto è grosso e tondeggiante e appuntito sul fondo: proprio per questo ricorda un capezzolo. Il frutto ha polpa bianca con venature rosse al nocciolo è molto succos e profumatissima. Matura nella prima quindicina di settembre e si conserva solo per breve tempo.

 

 

BASTARDUNA: sono i frutti del fico d’India coltivati nella zona di Calatafimi Segesta, in Sicilia. Sono frutti più grossi del normale ottenuti attraverso una tecnica colturale chiamata “scozzolatura”. All’inizio dell’estate, subito dopo la fioritura si procede alla eliminazione di tutti i fiori e delle pale più giovani; l’opunzia, stressata, farà una seconda fioritura con un minor numero di fiori dai quali matureranno frutti tardivi, dalle pregiate caratteristiche organolettiche. Così, maturati in un periodo più piovoso, più radi e dunque più grossi. I bastarduna sono inseriti nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani.

 

 

E ora è il turno delle bevande: il pranzo sboccato continua qui. Cin cin!
Nel frattempo, se volete fare due risate, ecco il video di Checco Zalone con la canzone sul “pollo cusutu ‘nculu”:

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