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I prof possono dire parolacce in classe?

Locandina di “Fuck you prof”, film tedesco del 2013.

Lui lo definisce “una tecnica avanzata d’insegnamento”. E, in effetti, ha successo fra gli studenti. Non è l’ultimo modello di lavagna interattiva multimediale, ma il turpiloquio: secondo questo professore, dire parolacce crea un clima divertente e più confidenziale in classe. Permettendo così di lavorare sodo.
Parola di Jordan Schneider, docente d’inglese in un’università di New York, il Queensborough Community College. Forse non è l’unico insegnante a fare lezione con un linguaggio sboccato, ma è il primo a teorizzarlo (e farlo) apertamente. «Alcuni pensano che dire parolacce sia un trucchetto a buon mercato, una stampella per sostenere chi non ha forza linguistica» spiega. «A volte è così, ma è altrettanto grave chi usa un linguaggio oscuro, affettato o troppo complicato. Almeno con le parolacce gli studenti capiscono esattamente cosa voglio dire».

Dunque, non è un “cattivo maestro”, un docente in cerca di scorciatoie e facile notorietà: le sue riflessioni, che racconto in questo articolo, raccontano un modo vivace di fare didattica. Schneider, insomma, somiglia agli sboccati protagonisti dei film “Fuck you prof” o di “School of rock”, che però non erano veri insegnanti anche se si spacciavano come tali. Lui invece è un docente vero (esercita dal 2001) e ha successo: sul sito “rate my professor” ha raccolto giudizi lusinghieri (un rating di 4,5 su 5) da parte degli studenti. Che dicono di lui: “E’ il migliore. Ho imparato un sacco e mi sono divertito”.

Un docente impreca in aula (foto Shutterstock).

Ha ragione? Il tema è d’attualità: sta iniziando un nuovo anno scolastico, e anche in Italia gli insegnanti stanno facendo i conti con le parolacce. Non tanto perché le dicono, quanto perché le ricevono: sono insultati apertamente dagli studenti. Uno scenario che, solo 10 anni fa, sarebbe stato impensabile.
Che cosa dovrebbero fare per difendersi? Insultare a loro volta? Denunciare? Far finta di nulla? E, in generale: come devono regolarsi i docenti col turpiloquio?
In questo articolo troverete le risposte, documentate con le ultime ricerche scientifiche sull’argomento. Ma non troverete una soluzione univoca: non è possibile solo l’alternativa manichea fra “non dire parolacce” o “dirle liberamente”.
Le parolacce sono un’enorme famiglia di termini. E si possono usare per gli scopi più diversi, per ferire ma anche per divertire, per emarginare come per coinvolgere, per prevaricare o anche per stabilire un rapporto alla pariDunque, alla domanda “Si possono dire volgarità in classe?”, la risposta è “dipende”. In questo articolo vi dirò da cosa.
Ma prima, una domanda nasce spontanea: come siamo arrivati a questo punto?

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IL CONTESTO: PERCHÉ ACCADE

Una studentessa provocante (Shutterstock).

L’episodio è emblematico dei nostri tempi, in cui nessuno crede più alle autorità. Insegnanti, controllori dei treni, vigili urbani, poliziotti, funzionari, politici… tutti sono finiti nel calderone della sfiducia, del sospetto, spesso del disprezzo.
La colpa è dei tanti scandali che hanno minato la fiducia nelle istituzioni e in chi le rappresenta. Questo rapporto ha iniziato a incrinarsi con lo scandalo Watergate (1972) negli Usa, che portò a dimettersi il presidente Richard Nixon. E pochi anni, nel 1976, dopo lo scandalo Lockheed in Italia, che costò la presidenza a Giovanni Leone, pur estraneo ai fatti.

Ma questo clima di sfiducia è anche l’effetto della livella che ha appianato le differenze sociali dal 1968 in poi: il (giusto) cammino verso la parità di tutti, la (giusta) lotta contro gli abusi di potere di chi sta in alto, ha prodotto una società in cui tutti sono, o credono di essere, uguali agli altri. L’avvento di Internet, poi, ha dato il colpo di grazia: ciascuno di noi può farsi un giudizio ed esprimere un giudizio su tutto. Anche se non ha la competenza, l’esperienza o i documenti per farlo. E sui social impazzano le parolacce, perché scriverle nascondendosi dietro uno schermo è molto più facile che dirle in faccia a qualcuno.

Ecco perché, dunque, anche uno studentello di 16 anni si sente in diritto di fare il galletto da pari a pari con il suo professore. Ed ecco perché le iniziative che si propongono di ridurre gli insulti nelle scuole (come il manifesto di “Parole ostili”) o di sensibilizzare l’opinione pubblica mostrando l’alto uso di epiteti su Twitter (“Vox diritti”) non potranno mai sconfiggere davvero le ingiurie: perché cercano di bloccare i sintomi ma non affrontano le cause profonde del linguaggio offensivo (sfiducia, livellamento, informalità, mancanza di valori, analfabetismo digitale, narcisismo sociale).

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I DESTINATARI: CON CHI DIRLE, CON CHI NO

Mai insultare un bambino (Shutterstock).

Le parolacce, comunque, esistono e sono diffuse. Non possiamo far finta di non conoscerle, di non dirle, o che non esistano. Dunque, tanto vale farci i conti. Ma se un insegnante vuole usarle in aula, la prima valutazione da fare è chiedersi chi sono i destinatari. A chi si rivolgono? Un conto è usare un linguaggio sboccato in una classe di alunni di 4a elementare o di 2a media,, un altro conto è farlo in una classe di liceali o di studenti universitari.  Le parolacce non vanno bene nelle scuole di ogni ordine e grado.

E’ vero che oggi i ragazzi sono sempre più precoci nell’apprendere le volgarità. Anche se, giova sempre ricordarlo, la responsabilità di questo è degli adulti, che danno un cattivo esempio in casa, in tv o per strada – salvo poi scandalizzarsi o lamentarsi delle nuove generazioni.
Ma è altrettanto vero che le parolacce sono un linguaggio da adulti, perché è strettamente legato alla vita sessuale (circa il 50% delle parolacce riguardano i genitali, gli atti sessuali e l’etica sessuale). Dunque, non è roba da piccoli. Anche se, come dicevo in un post, a volte è importante parlare di parolacce ai più piccoli, per far capire loro cosa significano, motivando così perché non dirle. Ed è giusto tollerare quando i bambini le usano per gioco o per sfogare un’ansia, come quando parlano di cacca (lo raccontavo in quest’altro articolo).

Allora a quale età degli alunni sarebbe opportuno, per un docente che volesse farlo, usare un linguaggio sboccato? Senz’altro con quelli maggiorenni. Direi dall’università in poi. Ma per quale motivo? Lo spiega molto bene il professor Schneider in un articolo che ha scritto per un notiziario sul mondo universitario The Chronicle of Higher Education“L’università spesso sembra un posto fin troppo serio, e le scurrilità sono un modo di umanizzarlo. Le parolacce diventano un atto di ribellione: chiamare una stronzata col suo nome è spesso più preciso che girarci intorno. E il linguaggio sboccato è un modo di mostrare agli studenti in modo inequivocabile che non sono più al liceo, ma sono entrati nel mondo degli adulti, un mondo in cui è permesso usare un linguaggio salace quando la situazione lo richiede”.
Nelle prossime righe vedremo meglio a quale scopo (e con quali limiti) il professor Schneider usa le scurrilità a lezione.  

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INSULTI TU, INSULTO IO?

Un prof dà in escandescenze (Shutterstock).

Pochi mesi fa è diventato virale il video di uno studente di un istituto tecnico di Lucca. Che, a 16 anni d’età, dice minaccioso al suo insegnante: “Prof, mi metta 6 e non mi faccia incazzare”. E non è un caso isolato: nei giorni successivi sono emersi episodi simili a Torino, Imola, Cusano Milanino….  Che cosa dovrebbero fare gli insegnanti? Stare zitti, come il professore di Lucca? Rispondere a tono? Tipo: “Non farmi incazzare tu e fila al tuo posto!)? Oppure insultare a loro volta (“Grullo, chiudi il becco o ti mando dal preside”)? Difficile rispondere: potrebbe funzionare, ma si rischia di inasprire lo scontro. Molto dipende dal modo con cui si dicono queste frasi, e dal rapporto instaurato con l’alunno: confidenziale, autoritario, formale….
In ogni caso, rispondere a un insulto, o dirlo in un momento di rabbia sono comportamenti inaccettabili per un professore. Per alcuni motivi intuibili:

  1. è illegale: chi insulta commette il reato di ingiuria (che ho raccontato in questo articolo). Negli ultimi tempi, diversi docenti sono stati condannati per essersi incazzati e aver insultato gli allievi. Un docente di educazione tecnica alle medie di Torino aveva detto “cinese di merda” a un allievo, ed è stato indagato per istigazione all’odio razziale. Il docente di un liceo scientifico di Palermo ha dovuto risarcire con 5mila euro i danni morali a uno studente a cui aveva detto “Sei uno stronzo, sei un cretino, ti senti un cazzo e mezzo, sei un rompicoglioni, non sei adatto a questa società”. Senza contare che l’uso di insulti da parte dei docenti ha, ovviamente, un effetto negativo sulla psiche e sul comportamento degli alunni, come rileva questa recente ricerca dell’università di Dublino su studenti di 9-12 anni
  2. darebbe il cattivo esempio: se un insegnante vuole che i suoi allievi si rispettino e lo rispettino, deve fare altrettanto con loro
  3. è un abuso di potere: un docente è già in una posizione sovraordinata rispetto agli studenti; insultarli sbilancerebbe ancor più questo rapporto
  4. è un boomerang.  In una ricerca del Dipartimento di comunicazione della West Virginia University (Usa) Alan Goodboy ha accertato che avere un insegnante ostile fa ottenere risultati peggiori: in un esperimento con quasi 500 studenti, il gruppo con un docente ostile ha ottenuto punteggi più bassi del 5% rispetto a quelli che avevano docenti che non lo erano. Perché gli studenti erano demotivati e non si sentivano di fare sforzi per imparare. E perché gli argomenti non gli piacevano: l’ostilità si riversava dal prof al contenuto della sua lezione.

Si potrebbe però valutare un’eccezione: a volte un insulto – se detto in modo bonario e a scopo costruttivo, di stimolo – può aiutare a smuovere un alunno pigro o borioso. Nel 2013, la Cassazione ha emesso una sentenza che lascia uno spazio a chi voglia usare un approccio moderatamente ruvido. Ha condannato una professoressa di Rossano che aveva chiamato un alunno “nullità, handicappato, bugiardo”, visto che sono “espressioni obiettivamente denigratorie e indicative di volontà offensiva”. Ma ha tollerato che l’avesse definito “asino”: un epiteto “non lodevole” che, almeno in linea di principio, “potrebbe riconnettersi a una manifestazione critica sul rendimento del giovane con finalità correttive”.  

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UNO STILE SCHIETTO (MA RISCHIOSO)

Locandina di “School of rock” commedia musicale del 2003.

Già nel mio libro avevo raccontato diverse ricerche che mostrano i benefici effetti per un oratore che usi il  turpiloquio: abbatte i muri comunicativi, accorciando le distanze grazie a uno stile informale, dando l’impressione di una persona schietta e amichevole. E’ fra amici che si parla senza peli sulla lingua, senza doversi preoccupare di essere educati. Le parolacce creano un clima più rilassato. E, certamente, tengono viva l’attenzione.
Come ricorda il professor Schneider: “Le volgarità esprimono le emozioni forti, in un modo così diretto che è impossibile ignorarlo. Per questo sono presenti in molta letteratura, oltre a essere presente nella musica, nei film e in tv. Il mio linguaggio volgare in aula infrange la nozione che l’oscenità sia lo strumento degli inetti, dei maleducati e degli ignoranti”.

Ma questa medaglia ha un rovescio: chi dice parolacce perde autorevolezza. Perché appare una persona senza controllo sulle proprie emozioni, incapace di rispettare le regole della convivenza civile o le sensibilità altrui.
Nonostante nel frattempo le volgarità si siano ancor più diffuse – in politica, in tv, sui giornali – oggi fanno ancora una cattiva impressione. L’ha confermato una ricerca, pubblicata quest’anno, di Melania DeFrank, psicologa alla Southern Connecticut State University. Gli scienziati hanno mostrato a 138 persone (18-53 anni d’età, in maggioranza donne) alcuni dialoghi disegnati su vignette: alcuni erano neutrali, altri mostravano parolacce. Alla fine i partecipanti dovevano dare un giudizio sui personaggi raffigurati.
Risultato: “le volgarità determinano un’immagine più povera del relatore: l’impressione generale è meno favorevole”. Insomma si perdono punti: in dettaglio, “si appare meno intelligenti, affidabili, gradevoli. Si appare come più inclini alla rabbia, alla devianza, meno educati, più offensivi.  Ma anche più anticonformisti e sorprendenti”. E l’effetto aumenta se si parla a una platea mista, di maschi e femmine: il turpiloquio è più accettato se lo si usa con i propri pari (maschi con maschi, femmine con femmine). Diversamente, viene percepito come più offensivo e meno socievole. E attenzione: queste impressioni prescindono da quanto si possa essere puritani o moralisti: circa la metà dei partecipanti aveva persino giudicato non volgari diverse espressioni “forti” scelte dai ricercatori.

Che fare dunque? Il professor Schneider sostiene che le parolacce sono un modo efficace di rompere il ghiaccio e instaurare un clima aperto e sincero. “Incoraggio i miei studenti a trovare la propria voce e a svilupparla. E per farlo devo usare la mia voce in modo onesto, anche violando qualche tabù: se mi assumo questo rischio pur di essere sincero, lo faranno anche loro”. Ma questo può avvenire solo a un patto: che il docente sia abituato a usare un linguaggio volgare anche fuori dall’aula. “Se non siete abituati a dire parolacce nelle vostra vita, non fatelo in aula. Sarebbe innaturale”. Come certi professori che si atteggiano a fare i “giovani”, con esiti pietosi.

Ma attenzione, dire parolacce non basta. Bisogna usarle al servizio di un programma solido. “Dire parolacce in aula può essere pericoloso: alcuni pensano che l’istruzione sia sinonimo di sofferenza, e che se un docente è divertente allora la classe non lo prende sul serio. Ma in realtà le volgarità rendono più difficile nascondere un programma debole, standard bassi o incompetenza. Essere rilassati, divertirsi, fare battute, tutto questo deve essere bilanciato con rigore, abilità, cura e valore educativo reale se gli studenti rispettano l’insegnante. Anzi, usare le parolacce implica che io e gli allievi vogliamo lavorare duro e spingerci oltre, anche divertendoci”. Dunque, se dire parolacce “è una tecnica avanzata di docenza”, è anche una sfida con qualche rischio. “I suoi vantaggi possono essere anche svantaggi: si rinuncia a parte dell’autorità attribuita ai docenti. A volte i prof devono combattere per ottenere il rispetto degli allievi, e un linguaggio informale può rendere questo più difficile. In ogni caso, ognuno è chiamato a decidere cosa dire e chi essere quando sta di fronte a una classe”.

Per quanto mi riguarda, da 9 anni uso un approccio simile – ma più prudente – durante il corso di giornalismo scientifico che tengo al Master di giornalismo dell’Università Iulm di Milano. Nelle prime lezioni espongo con serietà (e severità) i contenuti delle mie lezioni. Se ottengo l’attenzione e il rispetto, allora introduco qualche espressione pepata, quando ci vuole. E, in effetti, si crea un clima più confidenziale e divertente. Ma tutto questo non sarebbe possibile in una classe indisciplinata e disinteressata.  

Questo articolo è stato rilanciato dal blog per studenti “Facce caso“.

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One Comment

  1. ciao Vito
    Leggo sempre i tuoi articoli e grazie a te e al tuo libro ho fatto pace con quella parte di me che ogni tanto “ prende il via” quando insegna…
    Faccio l’operatrice sociale e utilizzo le parolacce nei miei colloqui con i pazienti in carcere… . E con i miei studenti all’Università (insegno pedagogia e pedagogia generale alla facoltà di Fisioterapia della Sapienza). Ed è proprio come dici tu alla fine dell’articolo… testi l’ambiente e quando senti fiducia attivi quei meccanismi narcisistici di compiacenza …necessari a una relazione attentiva per essere educativa e formativa…
    Purtroppo in alcuni momenti è accaduto.. e mi è pure scappata una bestemmia..eh sì! a dimostrazione, come dice il mio compagno, che sono una donna trans convenzionale…ma ci stava tutta…!! e da non crederci… un paziente tossicodipendente…dopo anni di terapia… mi ha detto che in quel momento ha sentito… che si sarebbe potuto fidare di me perchè ha visto…quanto gli volevo bene…
    pensa te…
    Grazie . Questo articolo mi ha fatto fare pace con quello che ho sempre pensato.. Un “ giudizio da esperto” che mi ha aiutato e confortato…quindi grazie !!!!
    Jole

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