
Nel fotomontaggio, autoritratto di Caravaggio (dal dipinto “Giuditta e Oloferne”)
E’ l’emblema dell’artista maledetto: genio e sregolatezza. Ha dipinto capolavori immortali ma ha passato la sua breve vita (morì a 39 anni) dentro e fuori dalla galera, fuggendo da condanne, gendarmi, creditori, malviventi (e con un paio di omicidi sulle spalle). Caravaggio è uno degli artisti che ammiro di più, e mi è venuta una curiosità: come si esprimeva nella vita di tutti i giorni? In particolare: diceva parolacce, e quali?
Da un personaggio con una biografia del genere ce le possiamo aspettare, ma l’artista non ha lasciato opere scritte. Eppure possiamo conoscere il suo linguaggio grazie a straordinari documenti del suo tempo: i verbali delle denunce, degli interrogatori e delle sentenze a suo carico. Documenti dell’epoca, che offrono una prospetiva unica sul suo linguaggio (spoiler: molto volgare), oltre che sul suo carattere inquieto, travagliato e facilmente infiammabile. Gli importava più della propria onorabilità di artista e di uomo che della fedina penale. E diceva ciò che pensava a muso duro, senza sconti per nessuno: compresi i pubblici ufficiali.
Le parolacce offrono un ritratto eloquente dell’uomo Caravaggio (soprannome di Michelangelo Merisi), a cui sono dedicate due grandi mostre che stanno aprono proprio in questo mese: una a Roma, a palazzo Barberini (Caravaggio 2025, dal 7 marzo al 6 luglio) e una a Firenze a Villa Bardini (Caravaggio e il Novecento, 27 marzo-20 luglio).
Un “dissing” del 1600

Autoritratto di Caravaggio nel Martirio di San Matteo (1600).
A Roma, Caravaggio fu più volte denunciato per schiamazzi notturni, atti vandalici, porto d’armi abusivo, aggressioni, ingiurie, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, diffamazione. Nei verbali dei suoi arresti e processi (conservati all’Archivio di Stato di Roma) emerge il suo linguaggio scurrile, espressione del suo temperamento irruente, competitivo, facilmente infiammabile, attaccabrighe e insofferente verso ogni limitazione.
Fra le imprese che lo hanno portato in tribunale, anche la composizione di due sonetti osceni, in cui prese di mira il suo collega e rivale Giovanni Baglione. Una sorta di “dissing” barocco, che rende Caravaggio simile a un trapper balordo dei nostri tempi. Baglione viene definito “Gian coglione”, le sue opere “pituresse” (croste di nessun valore) buone solo per incartare i salumi o (testualmente) per pulirsi il culo o come falli artificiali. Quei sonetti satirici così caustici, infatti, erano un giudizio artistico sulle opere del rivale, che si fa chiamar “pittore” ma non è capace nemmeno di mescolare i colori. Una prova tangibile di quanto la passione per l’arte coinvolgesse Caravaggio in modo viscerale. La Storia, insomma, non ci ha consegnato solo insulti da risse notturne, che pure furono numerose.

A sinistra, ritratto di Giovanni Baglione; a destra, Caravaggio ritratto da Ottavio Leoni (1621).
Come scrisse Baglione ne “Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti”: “Fu Michelagnolo [Michelangelo], per soverchio ardimento di spirito, un poco discolo, e tal hora cercava occasione di fiaccarsi il collo di mettere a sbaraglio l’altrui vita”. Baglione, infatti, è autore di una delle pochissime biografie di uno che l’aveva conosciuto davvero: sebbene scritta 30 anni dopo la morte del rivale, trasuda ancora livore. Questi atti giudiziari, oltre a svelare il turpiloquio di Caravaggio, sono un’occasione preziosa anche per conoscere la sua filosofia artistica, i colleghi che stimava e quelli che disprezzava, e quali sue opere, all’epoca, avevano suscitato clamore.
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Insulti sferzanti senza censure
Fra i numerosi verbali giudiziari a carico di Caravaggio (nei quali il giudice interroga testimoni e imputati in latino, e loro rispondono in italiano), ne ho trovati 4 costellati di parolacce. Caravaggio le diceva per sfogare la sua rabbia e disprezzare i suoi nemici, con una predilezione per gli insulti di carattere sessuale: i più feroci, rivolti sia alle donne (turare la potta) che agli uomini (becco fottuto, coglione), più diverse altre espressioni scurrili: forbirsene il culo, avere in culo, cazzone, cacca, fottere.

Testa di Medusa (1597): un possibile autoritratto di Caravaggio.
Un campionario nutrito: il pittore non aveva remore a usare il linguaggio scurrile, avendo un temperamento impulsivo, irruente e aggressivo. L’autocontrollo non era il suo forte. Era un uomo passionale e diretto: non aveva filtri né censure, si esprimeva così persino con i gendarmi. E questo gli ha ovviamente procurato diversi guai, da cui si è salvato soltanto grazie all’intervento dei suoi protettori altolocati (nobili e cardinali). E qui si impone un parallelismo con la sua arte: come nei dipinti voleva riprodurre esattamente quello che vedeva, senza alcun miglioramento estetico, così nel linguaggio non ricorreva a eufemismi. Diceva direttamente ciò che sentiva, anche se era sgradevole e offensivo.
Fra gli episodi per cui fu processato, spiccano i sonetti satirici contro il rivale Baglione, pieni di insulti scurrili, anche indiretti: per denigrare Tommaso Salini, dice che ha “un cazzon da mulo” (quindi sproporzionato, animalesco: oggi però suonerebbe come un complimento) ma non lo usa per “fottere la moglie”. E che le tele del suo amico Baglione sono buone giusto per “turare la potta” (la vulva) della moglie, come sostituti fallici. Immagine pesantissima, offesa irriguardosa e trasversale: perché colpisce anche una persona estranea alle dispute artistiche.
In un sonetto, poi, c’è anche uno sberleffo infantile: i quadri di Baglione valgono così poco che vendendoli ci si può ricavare i soldi per un paio di braghe così sottili da mostrare quando si sporcano di cacca.
Da notare l’uso del’aggettivo “fottuto” nel senso di “spregevole” (nell’espressione “becco fottuto“, ovvero “cornuto spregevole”): oggi è in disuso, suonerebbe come un’espressione tradotta dall’inglese, che fa largo uso del termine “fucked” o “fucking”. E, in una società maschilista, l’epiteto di “becco” era considerato massimamente offensivo per un uomo.
Interessante anche il termine “pituressa” (pitturetta), un diminutivo femminile con valore spregiativo.
Si segnala anche l’espressione “avere in culo” nel senso di “avere in antipatia”: oggi diremmo “stare sul culo”.
Negli atti del processo per diffamazione, Salini cita le espressioni “spione becco” e “furfante spione”, a lui rivolte da Onorio Longo, e Baglione lo conferma, aggiungendo che Longo gli aveva detto anche “infame”e “cornuto”. Tutti insulti in voga a quell’epoca.

Tommaso Salini
Caravaggio incontra per strada Mao (Tommaso) Salini, un collega pittore. Questi dipingeva soprattutto nature morte: cosa che aveva punto sul vivo Caravaggio, tra i primi a inaugurare, a Roma, questo genere di soggetti come elementi autonomi. Secondo Caravaggio Salini era un copione, un plagiatore, e questa cosa era per lui intollerabile. Così, un giorno, lo incrocia per strada, lo fa passare, ma poi lo insegue e gli assesta un colpo di spada in testa. “Michelangelo mi terò molti altri colpi in modo che se non fossero corsi li vicini, et così sentito il rumore facilmente sarei potuto dal detto restare ferito, et forse morto, havendomi di più ingiuriato, e dirme becco fottuto et altre parole ingiuriose”, rifersice Salini nella sua denuncia.
Occorre sottolineare che questo insulto ricorre più volte nelle denunce contro Caravaggio: lo diceva spesso, e forse era anche un’espressione molto in voga all’epoca.
E’ l’anno 1603. Circolano a Roma alcuni componimenti scurrili, citati a memoria, e trascritti su carta passano di mano in mano. I sonetti satirici prendono di mira il pittore Giovanni Baglione e il suo amico Tommaso “Mao” Salini. Quando Baglione ne viene a conoscenza, denuncia Caravaggio insieme ai suoi amici Onorio Longhi, Ottavio Leoni e Orazio Gentileschi, considerati corresponsabili o almeno informati sui fatti. Fra Baglione e Caravaggio c’era un’esplicita rivalità, come fra Salieri e Mozart: ma mentre i due musicisti avevano rapporti civili, Caravaggio e Baglione si disprezzavano apertamente. Con Caravaggio, in particolare, c’era una rivalità aperta: Caravaggio non stimava Baglione, come non stimava quanti cercavano di imitare, senza riuscirci, il suo stile realistico.

1) Amor vincit omnia (Caravaggio); 2) e 3) Amor sacro e amor profano (Baglione). Nella versione 2) Amore è con la corazza, nella 3), dopo le polemiche, è senza.
La loro rivalità era nata nel 1602, quando Caravaggio aveva dipinto Amor Vincit Omnia per il marchese Vincenzo Giustiniani. Il quadro, che rappresenta il trionfo dell’amore su tutte le arti, ebbe grande successo a Roma. Il modello che aveva posato per l’opera era Cecco Boneri: allievo, factotum e forse anche amante di Caravaggio.
In quello stesso anno, Baglione dipinse il medesimo soggetto “Amor sacro e amor profano”, per il fratello del marchese, il cardinale Benedetto Giustiniani. In una prima versione Amore era vestito con una corazza, ma non rispondeva alla giusta iconografia: “sembra che indossi una caffettiera”, fu il commento sarcastico di Caravaggio. In tutta risposta Baglione ne fece un’altra versione, nella quale l’amore divino irrompeva su un diavolo con un volto simile a quello di Caravaggio, e un putto che somigliava al suo modello. Come se li avesse sorpresi in atteggiamenti equivoci. Per quest’opera Baglione ricevette come compenso una collana d’oro dal cardinale Giustiniani, con disappunto dei colleghi.
L’anno successivo i Gesuiti commissionarono a Baglione una resurrezione di Cristo per la Chiesa del Gesù: il dipinto – oggi perduto, ne resta solo un bozzetto – fu molto criticato da Caravaggio e dai suoi amici, che lo dileggiarono con due sonetti. Quando Salini li ascoltò, li trascrisse e li mostrò a Baglione: entrambi avevano ottimi motivi per farla pagare a Caravaggio.

Bozzetto della Resurrezione di Baglione (andata perduta)
Ecco il testo della denuncia di Baglione: “Avendo io depinto un quadro della resurrettione di Nostro Signore , detto Micalangelo pretendeva farlo lui, perciò esso Micalangelo per invidia, et detti Honorio Longo et Horatio (Gentileschi) suoi amici et adherenti, sono andati sparlando del fatto mio, con dir male di me et biasimare l’opere mie, et in particolare hanno fatto alcuni versi in mio dishonore et vittuperio [vergogna], et datili et dispensatili a più et diverse persone… Li suddetti querelati sempre m’hanno perseguitato, sono stati miei emoli [emuli] et m’hanno avuto invidia vedendo che le mie opere sono in consideratione più che le loro…do querela di questi versi infamatorii fatti contro di me”. La denuncia fece sicuramente infuriare Caravaggio, che non invidiava affatto Baglione (quantomeno per la pittura), e non era affatto un suo emulo (anzi, era vero il contrario).
E così Caravaggio si trovò per l’ennesima volta alla sbarra degli imputati. Il processo è un documento prezioso, non solo perché rivela le parolacce usate a quell’epoca, ma anche per comprendere la concezione artistica di Caravaggio. Il giudice, infatti, cercò prima di far confessare agli imputati d’aver composto i versi; non riuscendoci, cercò di otttenere da Caravaggio un giudizio positivo su Baglione. Ma una volta messo alle strette, come vedremo, Caravaggio non riuscirà a trattenere la sua completa disistima nei confronti del rivale.
Ed ecco il testo del primo sonetto:
Gioan Bagaglia tu non sai un acca
le tue pitture sono pituresse [dipinti di scarso valore] volo [voglio] vedere con esse che non guadagnarai mai una patacca che di cotanto panno da farti un paro di bragesse [paio di mutande] che ad ognun mostrarai quel che fa la cacca Porta là adunque i tuoi desegni e cartoni che tu hai fatto a Andrea pizicarolo [salumiere] o veramente forbetene [ puliscitene] il culo o alla moglie di Mao turegli la potta che con quel suo cazzon da mulo più non la fotte. Perdonami dipintore se io non ti adulo che della collana che tu porti indegno sei [la collana d’oro con cui il dipinto fu pagato] et della pittura vituperio [disonore]. |
Giovanni Bagaglia, tu non sai niente,
i tuoi dipinti sono di scarso valore, con loro non guadagnerai nemmeno un soldo con cui comprare un paio di braghe con cui tutti potranno vedere Dunque, porta i disegni che hai fatto al salumiere oppure usali per pulirti il culo, oppure per otturare la fica della moglie di Salini, che pur con quel cazzo da mulo non la fotte. |
E questo è il secondo:
Gian coglion senza dubio dir si puole [può]
quel che biasimar si mette altrui che può cento anni esser mastro di lui. Nella pittura intendo la mia prole poi che pittor si vol chiamar colui che non può star per macinar con lui. I color non ha mastro nel numero si sfaciatamente nominar si vole [non ha maestria nel numero di colori, anche se si proclama sfacciatamente un maestro] si sa pur il proverbio che si dice che chi lodar si vole si maledice. Io non son uso lavarmi la bocca né meno di inalzar quel che non merta come fa l’idol suo che è cosa certa. Se io mettermi volesse a ragionar delle scaure [deformità] fatte da questui [ costui] non bastarian interi un mese o dui. Vieni un po’ qua tu ch’e vò’ biasimare l’altrui pitture et sai pur che le tue si stano in casa tua a’ chiodi ancora vergognandoti tu mostrarle fuora. Infatti i’ vo’ l’impresa abandonare che sento che mi abonda tal materia massime [soprattutto] s’intrassi ne la catena d’oro che al collo indegnamente porta che credo certo meglio se io non erro a piè gle ne staria una di ferro [come carcerato]. Di tutto quel che ha detto con passione per certo gli è perché credo beuto avesse certo come è suo doùto [perché credo avesse bevuto come suo solito] altrimente ei saria un becco fotuto. [un cornuto fottuto] |
Senza dubbio Gianni si può definire un coglione, perché si mette a criticare chi può essere suo maestro per cento anni. Parlo della pittura, perché si fa chiamare pittore persino chi non è capace di preparare i colori.Non è un vero maestro nei colori, eppure si ostina a farsi chiamare tale, ma si sa il proverbio: “Chi si loda, si maledice da solo.”Io non sono abituato a parlare a vanvera, né tantomeno a esaltare chi non lo merita, come invece fa il suo idolo, senza dubbio. Se volessi raccontare gli errori che ha fatto questo individuo, non basterebbero un mese o due.Vieni qua, tu che vuoi criticare i dipinti altrui, eppure sai bene che i tuoi restano appesi ai chiodi in casa, perché ti vergogni di mostrarli in pubblico.Infatti voglio abbandonare questa impresa, perché mi rendo conto che ci sarebbe fin troppo da dire, soprattutto se parlassi della catena d’oro che porta indegnamente al collo. Anzi, credo che, se non mi sbaglio, gli starebbe meglio una catena di ferro ai piedi.Tutto ciò che ha detto con tanta passione è certamente dovuto al fatto che era ubriaco, come al solito. Altrimenti, non ci sarebbe altra spiegazione: sarebbe solo un cornuto spregevole. |
Dunque, versi satirici, pesantemente infamanti e ingiuriosi: in sintesi, le opere di Baglione andavano bene come carta per i salumi o come carta igienica, la sua pittura era un disonore, dato che non sa usare i colori. E Baglione oltre a essere un incapace era un “coglione” (rima fin troppo facile e prevedibile), un “cornuto fottuto“, un beone. Caravaggio, come gli altri imputati, negò di esserne l’autore, per evitar di pagarne le conseguenze: “Io non me deletto de compor versi né volgari né latini”, cioè né in latino né in italiano, aggiungendo, anzi di non aver mai sentito “né in rima, né in prosa, né volgari, né latini, né de nessuna sorte nelle quali se sia fatto mentione di detto Giovanni Baglione“. Secondo alcuni storici i sonetti potrebbero essere stati scritti da Onorio Longhi, ma è pur vero l’espressione “becco fotuto” è quasi un marchio di fabbrica di Caravaggio, visto quanto spesso la usava. La verità su quei sonetti non la sapremo mai. Ma senz’altro Caravaggio ne condivideva il contenuto.
Dato che nessuno degli imputati ammise di aver scritto i sonetti, il giudice cercò di approfondire quale opinione Caravaggio avesse sull’arte di Baglione, per accertare se emergessero livori. L’artista si presenta come pittore («L’essercitio mio è di pittore»), e il giudice gli domanda se conoscesse altri colleghi. Caravaggio risponde citando vari nomi, come il Pomarancio, il Caraccio e anche Baglione, precisando però che “non tutti sono valent’huomini”, ovvero che sappiano “depinger bene et imitar bene le cose naturali”. Un documento straordinario perché ci dà, in prima persona, il manifesto della sua arte: per lui consiste nel riprodurre fedelmente la realtà.
Poi Caravaggio aggiunge che Baglione non è suo amico perché “non mi parla”. Il giudice allora gli chiede un giudizio sul rivale: “Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione”. Prima stoccata.
E, interrogato sul dipinto della Resurrezione, del quale Baglione riteneva che Caravaggio fosse invidioso, l’artista risponde senza tanti giri di parole: “Quella pittura della resurrettione a me non piace perché è goffa et l’ho per la peggio che habbia fatta, et detta pittura io non l’ho intesa lodare da nessun pittore et con quanti pittori io ho parlato, a nessuno ha piaciuto”, tranne “da uno che va sempre con lui, che lo chiamano l’angelo custode”: Mao Salini. Seconda e definitiva stoccata.
Alla fine il giudice, non avendo altra prova se non la disistima verso Baglione, condanna Caravaggio e i suoi amici a un mese di arresti domiciliari. Ma la pena fu presto ridotta grazie all’interessamento dell’ambasciatore francese a Roma, Philippe De Béthune.

Una spada: particolare del dipinto “La buona ventura” (1596/7)
Caravaggio viene fermato dalle guardie alle 5 del mattino mentre circolava per Roma con addosso spada e pugnale. Le guardie gli chiedono se avesse la licenza per le armi: il pittore la mostra, e tutto sembra risolto. Il capo delle guardie gli dice “Bona notte signore” e Caravaggio in tutta risposta gli ringhia un rabbioso: “Ti ho in culo” (mi stai sul culo). Scatta l’arresto, e quando l’artista è ammanettato urla “Ho in culo te et quanti par tuoi si trovano”. E tutto finisce sugli atti della denuncia a carico di Caravaggio, che passò l’ennesima notte in galera.

Un oste raffigurato ne “La cena in Emmaus” (1601/2)
L’episodio avviene all’Osteria della Lupa, una taverna dove Caravaggio si fermava spesso a mangiare. Quel pomeriggio, verso le 17, l’artista era in compagnia di due amici. E avviene un episodio per il quale il cameriere, Pietro da Fusaccia, lo denunciò alla magistratura: “Havendoli portato otto carcioffi cotti, cioè quattro nel buturo [burro] et quattro col olio, detto querelato mi ha domandato quali erano al buturo et quelli all’olio. Io li ho risposto: che li odorasse, facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel buturo et quelli all’olio”.
La risposta, probabilmente accompagnata da un gesto (il cameriere avvicinò il piatto al naso) fece andare Caravaggio su tutte le furie: non era un trattamento rispettoso e adeguato al suo rango. E, obiettivamente, una risposta molto provocatoria. Così, racconta un testimone “Avendo avuto a male Michelangelo si levo in piedi in collera et gli disse: “Se ben mi pare, becco fottuto, ti credi di servire qualche barone!. Et prese quel piatto con dentro i carciofi e lo tirò al garzone nel viso”, ferendolo “al mustacchio” (ai baffi). Poi, racconta il giovane, Caravaggio prese subito mano alla spada, ma i suoi amici lo trattennero, evitando che lo scontro degenerasse.
♦ Massimo Centini “Luci ed ombre di un artista maledetto” (Diarkos, 2024)FONTI
♦ Giuliano Capecelatro “Tutti i miei peccati sono mortali” (Saggiatore, 2003)
♦ Michele di Sivo, Orietta Verdi “Caravaggio a Roma. Una vita dal vero” (De Luca, 2011)
♦ Riccardo Gandolfi “Le Vite degli artisti di Gaspare Celio” (Olschki, 2021)
♦ Luigi Garofalo, Barbara Biscotti “Caravaggio, rivalità artistiche e diffamazione” (Corriere della sera, 2019)
♦ Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1642
♦ Rossella Vodret Adamo “Dentro Caravaggio” (Skira, 2017)
♦ Francesca Curti, Orietta Verdi “Caravaggio, Lena e Maddalena Antognetti. Una storia da riscrivere” (Storia dell’arte rivista, 2022)
♦ Clovis Whitfield “Caravaggio a Roma: dalla miseria alla gloria. Considerazioni sui nuovi documenti sul primo tempo romano del genio lombardo” (About Art online, 2017)
♦ Sergio Rossi ““Lena” e le donne di Caravaggio. Splendori e miserie di artisti e cortigiane nella Roma del primo Seicento” (About Art online, 2021)
♦ Marco Bona Castellotti “Caravaggio arrivò a Roma nel 1596” (Il Sole 24 ore, 2011)
♦ Marco Mascolo “Caravaggio nero, una notizia milanese” (Il Manifesto, 11 aprile 2021)
♦ Aleksander Gielo “Erotismo, violenza e ortodossia nelle opere di Caravaggio” (Kainowska, 2018)