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L’eterno ritorno del maranza

I maranza visti dall’Intelligenza artificiale (Dall-E)

L’identikit è semplice: occhiali a specchio, capelli rasati ai lati con riccioli sulla fronte, marsupio Louis Vuitton “taroccato” a tracolla sul petto, tuta Nike o Lacoste, piumino nero smanicato e scarpe Nike (oppure ciabattoni). Ascolta la musica trap.
E’ il maranza, un termine spregiativo che designa i giovani di periferia dai gusti e comportamenti rozzi e volgari. Ne parlo in questo articolo: la parola è abbastanza nuova, eppure non è affatto una novità: in realtà è in uso da più di 30 anni. E, a ben guardare, il maranza è solo l’ultimo rappresentante di una categoria che, nei secoli, è stata sempre dileggiata: i poveri.

Il fiuto di Jovanotti

La copertina dell’album “La mia moto” (1989)

La prima apparizione ufficiale del termine maranza è una canzone di Jovanotti, “Il capo della banda” del 1989 (album “La mia moto”). “Mi chiamo Jovanotti e sono in questo ambiente / di matti di maranza e di malati di mente / fissati con le moto e coi vestiti americani / facciamo tutto ora o al massimo domani.”. In quel disco il termine appare anche in un’altra canzone, Bella storia: “Andare in giro, andare in vacanza, vestirsi da scemi e fare i maranza”.
Dunque, il termine ha già almeno 36 anni di vita: Jovanotti ha avuto il merito di averlo captato e trascritto.
Quell’anno, ospite della trasmissione Serata d’onore su Rai 2, Jovanotti aveva spiegato cosa significasse: «Il maranza è quello che si impunta: io porto il 44 di scarpe, però mi piace stare col 46, va bene? Non me ne frega niente se porto il 44, mi prendo le scarpe 46». Dunque, una persona che agisce di testa propria, fregandosene dei giudizi (estetici) altrui

L’origine del termine è incerta:  probabilmente deriva dal meridionale “maranza”, ‘melanzana’ (un riferimento al colore scuro della pelle), con possibile sovrapposizione di termini come Marrakech o Marocco. Secondo alcuni potrebbe derivare dalla  fusione tra «marocchino» e «zanza» , piccolo ladruncolo in milanese. E’ un aggettivo invariabile, e si riferisce a giovani di sesso maschile, dai modi rozzi e volgari come il loro aspetto. Il termine è tornato in auge negli ultimi tempi, nel 2022, alcuni raduni di giovani a Peschiera del Garda e Riccione che hanno causato problemi di ordine pubblico.
Il termine oggi si riferisce per lo più a figli di immigrati africani (a volte anche slavi o sudamericani), con abiti vistosi spesso contraffatti, e con atteggiamenti da bulli che talora degenerano in risse o in altri reati (lesioni, furti, rapine). 

Rustico e burino, gli antenati del maranza

Un libro umoristico sui tamarri.

Un fenomeno nuovo? Mica tanto. Se al termine “maranza” togliamo le connotazioni razziste e criminali, il suo significato equivale a quello di molti altri termini che designano le persone rozze e volgari: truzzo, coatto, tamarro. Nella nostra lingua abbiamo quasi 40 espressioni di questo tipo, che sono molto antiche. Il maranza, insomma, è una figura ricorrente nella Storia, e si ripresenta con vesti nuove ma simili in ogni epoca.
Ma che genere di insulti sono? Per capirlo, dobbiamo guardare più da vicino il significato originario dei termini. Che  possiamo raggruppare in 4 grandi categorie: mondo contadino (la più ricca di termini), altri mestieri umili, comportamento e aspetto.

Mondo contadino (17)

bifolco  dal latino bufulcus, custode dei buoi
borgataro abitante di borgata (piccolo insediamento di case in campagna)
bovaro da bove, custode dei buoi
burino  dal latino “bura”, manico dell’aratro
cafone  da cavare, scavare la terra
campagnolo da campo, porzione di terreno
contadino da contado, feudo di un conte
pacchiano  da patulanum “che vive in luoghi aperti”
paesano  abitante di campagna
pecoraio/pecoraro allevatore di pecore
plebeo appartenente alla plebe, al popolo
provinciale chi viene da un territorio periferico
rustico  da rus, campagna
selvatico/selvaggio  da selva, bosco
terrone chi zappa la terra
villano/villanzone/villico  abitante della villa, ovvero della campagna
zappaterra/zappatore dall’illirico zapp- ‘capro’ per i due denti, che richiamano le corna dell’animale

 Altri mestieri umili (12)

baggiano  da baiana, fava proveniente da Baia (Napoli)
buzzurro  forse da brüzur, bruciare: venditore di caldarroste
camallo  dall’arabo ḥammāl ‘portatore’, scaricatore di porto
gabibbo  soprannome che i marinai genovesi davano agli scaricatori del porto di Massaua (Eritrea), perché un nome proprio diffuso in quel luogo era Habib (حَبيبْ) che significa Amato
lavandaia donna umile che lava i vestiti altrui, dai modi rozzi 
pescivendola venditrice di pesce, umile e grezza
sguattero umile inserviente nelle cucine (dal longobardo wàhtari ‘guardiano’)
straccivendola venditrice di stracci
tamarro/tarro  venditore di datteri
triviale da trĭvium, cioè ‘che si trova nei crocicchi’, di strada
truzzo forse dal piemontese trus, torsolo
volgare  da vulgus, popolo

Comportamenti (9)

becero da becerare, urlare ad alta voce
coatto  costretto: persona rozza e volgare che imita passivamente gli aspetti peggiori della moda e del costume
maleducato educato male
materiale grossolano, sgraziato
screanzato  senza creanza (buone maniere)
sguaiato  dal francese esgayer rallegrare, da cui scomposto per eccessiva gaiezza.
tanghero  dal tedesco zangar, ostinato
trucido  dal francese: trucher vagabondare, mescolato con truce, feroce, e sudicio
zotico dal greco idiotikos, “privato cittadino”: chi bada solo al proprio orticello

Aspetto (1)

zarro  da zamarro,  giubbotto di montone

 

Il classismo, dagli Egizi a oggi

Cartolina di propaganda politica (1911). È raffigurato il sistema gerarchico capitalista in America, con i diversi livelli di oppressione della classe operaia. Al vertice della piramide c’è il “Dio denaro”

Che cosa accomuna questi termini? Sono tutti spregiativi, ossia esprimono disprezzo verso un gruppo di persone considerate inferiori e meritevoli di essere emarginate. Secondo Ira J. Roseman, docente di psicologia alla Rutgers University, il disprezzo ha due funzioni: cementa l’unità e l’identità di chi disprezza, escludendo dal consesso sociale i disprezzati.
Ma quale aspetto, nei maranza, nei coatti è considerato inferiore? L’appartenenza a classi sociali umili. Che, nella storia, sono sempre stati soprattutto i contadini. Già gli antichi Egizi li designavano con disprezzo “gente del fango”,  i Romani li chiamavano plebei, villici, rustici. Ecco perché la maggioranza di questi spregiativi si riferisce agli agricoltori.
Questi insulti, insomma, sono una forma di classismo: una forma di pregiudizio e di discriminazione verso chi appartiene alle classi sociali basse. I suoi rappresentanti sono visti con disprezzo perché fanno lavori umili, guadagnano poco. Una forma di emarginazione economica, che tradisce in realtà la paura di scendere dalla piramide sociale: ti disprezzo perché penso che meriti di stare in basso, e di rimanerci, a differenza di me. Ma in realtà nessuno di noi può avere la certezza assoluta di evitare la miseria.

Il cantante napoletano Mario Merola ha portato in scena il mondo contadino in film e sceneggiate

Il linguaggio riflette sempre i rapporti di potere, e gli insulti di classe sono una testimonianza storica della lotta tra gruppi sociali. Un tempo, chi apparteneva alle classi più umili aveva anche meno diritti, sia giuridici (non poteva possedere la terra che coltivava) sia politici (non poteva partecipare alle assemblee decisionali).

Al disprezzo economico, poi, se ne affianca uno culturale: gli esponenti delle classi basse sono disprezzati per la loro ignoranza (chi non ha soldi per vivere non li ha neppure per studiare), per la mancanza di gusto estetico (grossolano, esibito) e per i modi, appunto, inurbani (chi non è urbano, cioè chi non vive in città, ovvero in campagna, è considerato automaticamente rozzo).

Eppure, buona parte delle specialità gastronomiche che ancora oggi apprezziamo ha origini umili (dalla pizza alla ribollita, dalla pasta e fagioli alla trippa), come anche diverse espressioni artistiche: sia nella musica (dal blues al rap, dal tango al reggae), sia nella letteratura (fiabe popolari, teatro dell’arte). E i maranza  che cosa ci lasceranno in eredità?

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