
Donald Trump visto dall’Intelligenza artificiale
Quali conseguenze hanno le parolacce pronunciate dalle più alte cariche dello Stato? Sono solo una caduta di stile o hanno conseguenze più profonde? Mi sono posto queste domande perché viviamo un’epoca senza precedenti nella Storia: capi di Stato (presidenti del Consiglio o della Repubblica), utilizzano un linguaggio volgare nelle occasioni pubbliche, sia nella politica interna che sulla scena internazionale. E questa abitudine è arrivata ai massimi livelli possibili: con Donald Trump, le bordate arrivano dalla più grande superpotenza mondiale, gli Stati Uniti.
L’ultimo episodio del genere risale allo scorso 9 aprile, quando Trump, dopo aver imposto dazi pesantissimi, ha detto, in tono canzonatorio: «Questi Paesi mi chiamano, baciandomi il culo. Muoiono dalla voglia di fare un accordo. Ti prego, per favore, troviamo un accordo, farò qualunque cosa, signore».
La frase è molto pesante, e più sotto ne esamino il senso e le implicazioni. Non è un caso isolato: questo stile comunicativo caratterizza anche il presidente dell’Argentina Javier Milei, e, nel recente passato, Nicolas Sarkozy (presidente della Francia), Boris Johnson (premier del Regno Unito), Rodrigo Duterte (presidente delle Filippine). E l’Italia è stata un laboratorio all’avanguardia mondiale in questo discutibile campo, con le sortite di Francesco Cossiga e soprattutto di Silvio Berlusconi, a loro volta preceduti da Umberto Bossi e da Beppe Grillo.

Il “V-day” (vaffanculo day) del Movimento 5 stelle.
Attenzione: non sto dicendo che i leader odierni siano più sboccati rispetto a quelli del passato: sarebbe impossibile da provare. Di certo, questi episodi oggi balzano sulle cronache perché, grazie a videocamere, registratori e smartphone, possiamo documentare molto più spesso la vita quotidiana dei politici, anche al di fuori dei canali e delle occasioni ufficiali. La sovraesposizione mediatica dei politici di oggi non ha precedenti rispetto al passato.
Al tempo stesso, però, non si può negare che i politici di oggi siano più volgari dei loro predecessori. Perché? E anche se l’uso delle parolacce è trasversale a ogni schieramento (destra, sinistra, centro), appare più diffuso fra i leader populisti di destra: perché? Il populismo è intimamente legato alle volgarità (non a caso “volgarità” deriva da “vulgus”, popolo).
In questo post darò una risposta a tutte queste domande, grazie ai ventennali archivi di parolacce.org. Scopriremo che i politici degli ultimi 30 anni sono stati “cattivi maestri”, con gravi responsabilità nell’aver creato un clima degradato (irrispettoso, superficiale, irrazionale) nel dibattito politico di oggi. I capi di Stato o di governo, o in generale i leader politici che hanno utilizzato un linguaggio scurrile si sono comportati in maniera irresponsabile: hanno agito senza tener conto che ricoprivano un ruolo alto e fortemente simbolico (rappresentano un’intera nazione) e hanno dato ai cittadini un cattivo esempio di comportamento. Con il loro modo di fare scurrile, hanno eroso i pilastri stessi della democrazia: un sistema che si basa non solo sulla separazione e il reciproco controllo fra i poteri (legislativo, esectivo, giudiziario), ma anche sul rispetto fra questi poteri. Se il rispetto viene meno, si corrodono le fondamenta del vivere democratico. E, in ultima analisi, le stesse istituzioni. Sono scenari a cui le democrazie sono vulnerabili, perché il rispetto fra i poteri è una regola implicita, non codificata, perciò non sono previste pene o altre contromisure dirette per chi infranga queste regole.
Perché i politici di oggi sono più volgari

Pubblicità elettorale allusiva di un candidato piemontese (2011)
Oggi le parolacce sono usate da rappresentanti di ogni schieramento: di destra, di sinistra o di centro. Questo dipende da due grandi fattori:
– il linguaggio informale si è diffuso in ogni ambito della vita, a scapito di quello formale: così, rispetto a 50 anni fa, oggi si dicono più parolacce: il turpiloquio è più tollerato, ed è diventato ormai inflazionato;
– i social media privilegiano i contenuti polarizzati (polemici, basati su posizioni nette e contrastanti) e quelli brevi: le parolacce, e soprattutto gli insulti si prestano a questo genere di comunicazione, perché sono “giudizi abbreviati”.

Manifesto per le elezioni comunali a Ragusa
In politica, le parolacce accorciano le distanze: rendono la comunicazione più informale, diretta, emotiva. Attirano l’attenzione e fanno guadagnare consensi perché appaiono come un linguaggio schietto, semplice e diretto (“parlo come te perché sono come te”). Sono usate, insomma, come uno strumento di marketing per strizzare l’occhio agli elettori, per guadagnarsi la loro simpatia e fiducia. Inoltre, sono spesso usate per demolire e squalificare gli avversari, cementando l’identità e la coesione del gruppo.
Ma hanno anche diversi e rilevanti aspetti negativi: fanno perdere autorevolezza (chi le dice risulta “incontinente” nel modo di esprimersi), creano un clima di polemica irrispettosa, tolgono spazio ad analisi pacate e razionali. In Italia, prima dell’avvento di Umberto Bossi e della Seconda Repubblica, il primo leader politico che ha introdotto un linguaggio più colloquiale e meno ingessato fu il socialista Bettino Craxi, premier dal 1983 al 1987. In generale usò un linguaggio arguto, salace e incisivo senza venature triviali, ma si concesse un paio di eccezioni: nel 1984, infastidito dalle critiche del giornale francese “Le Monde”, disse «Sto per rompermi i coglioni». E nel 1986, intervistato da un giornalista che gli obiettava che i socialisti sarebbero stati i responsabili della caduta di governo, rispose: «Chi lo dice è un coglione»; l’intervistatore obiettò che l’affermazione arrivava da Renato Altissimo, segretario del Partito Liberale. E Craxi replicò: «Allora è un Altissimo coglione». Iniziava così il passaggio dal “politichese” al “gentese”, il linguaggio della gente comune.
IL POPULISMO, SCURRILE PER NATURA

Umberto Bossi fa il “gesto dell’ombrello”
Accertato che le parolacce sono usate da politici di ogni schieramento, è altrettanto evidente che sono i leader populisti, soprattutto di destra, a usare un linguaggio sboccato: perché? Innanzitutto per motivi storici, come avevo raccontato in un precedente post: le parolacce sono state sempre usate da chi si è opposto al potere dominante, per protesta e per attirare l’attenzione. E fino agli anni ’90 in Italia la destra è stata all’opposizione: non a caso il primo alfiere del turpiloquio è stato Umberto Bossi, che ha usato le parolacce come linguaggio di rottura verso i poteri dominanti, per guadagnarsi i riflettori come nuovo protagonista politico. Ma l’uso delle parolacce non si è limitato alla Lega Nord: è comune anche ad altre forze populiste.
Ma cosa significa questa espressione? Il populismo non è strettamente un’ideologia, bensì una visione del mondo che si basa sull’opposizione tra “il popolo” (inteso come puro, virtuoso) e “l’élite” (considerata corrotta, distante, traditrice). Il leader populista si presenta come l’unico in grado di rappresentare veramente il popolo, spesso attraverso una comunicazione semplice, diretta, e fortemente emotiva. Bisogna distinguere fra populismo e demagogia: il demagogo è chiunque usi uno stile comunicativo basato su slogan e parole forti, promesse irrealizzabili che mirano a ottenere consenso; il populista attacca le élite, ha il culto del leader e fa riferimento a un’ideologia di fondo (nazionalismo, sovranismo, etc). Il populismo è una visione del mondo, mentre la demagogia è una tecnica retorica.

Benito Mussolini durante un comizio
Il termine “populismo” fu coniato per descrivere i movimenti socialisti e anti-zaristi nella Russia di fine ‘800, il “Partito del popolo” negli Usa, e diversi leader dell’America Latina (Juan Domingo Peròn, Simòn Bolivar). E in Europa? I nonni del populismo odierno sono Adolf Hitler e, soprattutto, Benito Mussolini. Lo scrittore Antonio Scurati considera infatti il fascismo come “l’archetipo” del populismo (“Fascismo e populismo”, Bompiani, 2023). Ecco i 4 aspetti che li accomunano:
1) Il leader identifica se stesso con il popolo: “il popolo sono io”. Un personalismo con una forte tendenza antidemocratica. E “chi con è con me è contro di me”: il leader populista stigmatizza ogni posizione politica, definendola come contraria alla nazione: antitaliana, antiamericana, antifrancese a seconda dei casi. Ciò basterà a dichiarare illegittima, quando non illegale, quella posizione antinazionale. «I suoi rappresentanti riceveranno non soltanto critiche, ma attacchi sul piano personale, saranno insultati, additati come nemici del popolo, traditori».
Al posto di una comunicazione centrata sul ragionamento e sull’analisi, il leader usa una comunicazione fisica, quasi corporale, viscerale. Il leader non esibisce alcuna superiorità, alcuna laurea o competenza particolare: «esibisce un corpo, che abbiamo tutti: e quel corpo non lo puoi analizzare o discutere: lo puoi solo adorare o odiare».
2) Se il leader incarna il popolo, allora il Parlamento e altre forme di dialettica o di controllo diventano perdite di tempo, lacci inutili, privilegi. Con una differenza importante: «A differenza dei populisti odierni, i quali si limitano – per così dire – a un’opera di discredito, di lenta erosione dei fondamenti parlamentari della democrazia liberale, il populismo fascista mussoliniano dichiarò subito l’intenzione di abbattere il Parlamento», scrive Scurati.
3) Il leader populista «non ha strategie di lungo periodo, non guida le masse verso un obiettivo lontano». Il leader è un vaso vuoto, che si riempie dei mutevoli umori della gente, senza preoccuparsi della coerenza, E ogni frase è uno slogan
4) Il leader populista fa leva su due sentimenti: la paura (per controllare le masse), e l’odio. E fa una brutale semplificazione della complessità della vita moderna: la realtà non è complicata come te la raccontano. Tutto è riconducibile a un unico problema, l’esistenza di un nemico: per i fascisti erano i francesi, i russi, gli inglesi, per i populisti di oggi gli immigrati stranieri.
Le differenze principali rispetto ai populisti di oggi? Mussolini scelse l’autoritarismo, mentre i populisti di oggi lo negano «pur non esimendosi dall’erodere le istituzioni democratiche»; gli squadristi di Mussolini usavano la violenza fisica, mentre i populisti no, «pur coltivando la tendenza a discreditare».
Dunque, il populismo è particolarmente incline a usare le parolacce perché queste ultime sono perfette per fare una comunicazione viscerale e basata su slogan semplificati: le parolacce sono il linguaggio delle emozioni e sono comprensibili a tutti. In più gli insulti servono per attaccare in modo rapido i nemici, invece di confutarli attraverso argomentazioni razionali.
Gli effetti delle parolacce presidenziali
E ora veniamo alla questione di fondo che riguarda qualunque capo di Stato, a prescindere dallo schieramento ideologico: quali conseguenze ha l’uso di un linguaggio volgare quando si ricopre una carica elevata, una posizione di potere? Le parolacce possono essere dette in vari modi: possono essere espressioni rafforzative, enfatiche, colloquiali; locuzioni oscene; oppure insulti. Ciascuna di queste espressioni ha effetti specifici.
1) ESPRESSIONI OSCENE E COLLOQUIALI

Sgarbi e Morgan durante l’incontro al museo Maxxi di Roma
Partiamo con i primi due casi, ovvero l’uso di espressioni enfatiche oppure oscene. Un caso esemplare, sebbene non abbia avuto come protagonista un premier bensì un sottosegretario (comunque un membro del Governo), è avvenuto al museo Maxxi di Roma nel 2023. Qui il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi aveva usato un linguaggio sboccato, da osteria, parlando di avventure sessuali durante un incontro con il cantante Morgan. Dopo l’incontro, i dipendenti del museo hanno inviato una lettera di protesta all’allora ministro Gennaro Sangiuliano, che condannò l’accaduto.
Infatti le espressioni scurrili degradano chi le dice ma anche la sacralità di luoghi e istituzioni: per i dipendenti del museo era inaccettabile che «il Maxxi possa essere oggetto di una deriva degradante come questa».

Il celebre gesto delle corna di Berlusconi durante la foto ufficiale dei leader europei nel 2002
Analoghe proteste – di portata internazionale – aveva sollevato il gesto scherzoso di Silvio Berlusconi, quando nel 2002, partecipando al vertice dei ministri degli Esteri europei, nella città spagnola di Caceres, si mise in posa per la foto di gruppo, facendo il gesto delle corna alle spalle del ministro degli Esteri spagnolo Josep Piqué. Un gesto goliardico, tipico da gita scolastica: peccato però che fosse un incontro istituzionale. Con questo modo di fare, Berlusconi ha infranto la liturgia del potere: ha messo in ridicolo la solennità dell’incontro fra le più alte cariche di uno Stato. Un sabotaggio ripetuto nel 2008 a Trieste, in occasione del vertice italo-tedesco, quando fece “cucù” alla cancelliera Angela Merkel, sbucando da dietro uno dei portabandiera.
Ma perché è grave se un’autorità usa un linguaggio scurrile? Nel 2006, tre linguisti – Sergio Bolasco, Nora Galli de’ Paratesi, Luca Giuliano – hanno fatto un’analisi statistica e linguistica dei discorsi di Silvio Berlusconi (“Parole in libertà”, Manifestolibri). Berlusconi diceva spesso battute volgari: celebri le sue barzellette, anche spinte. I linguisti hanno tratto la seguente conclusione: «Berlusconi ha avviato un nuovo costume linguistico: la deroga dalle regole della grammatica del rispetto, cioè usando nelle istituzioni (e a proposito delle istituzioni) un linguaggio che non è adatto ad esse, e inappropriato. La lingua usata dalla classe dirigente è per definizione uno dei modelli di imitazione per il pubblico, la sua imitazione è fisiologica in ogni società. Ognuno di noi possiede oltre alla competenza linguistica, che gli permette di formulare frasi grammaticali, cioè senza errori, anche una competenza comunicativa, che gli impone di usare determinate frasi solo in alcuni luoghi, con alcune persone, in determinate occasioni, eccetera.

Manifestazione contro Berlusconi ad Amsterdam (2009)
Ignorare intenzionalmente queste regole linguistiche (più propriamente sociolinguistiche) è molto più che poco educato, è un atto di rottura delle convenzioni sociali precise e profondamente interiorizzate, che sono veri assi portanti nella struttura sociale di un Paese. E siccome l’oggetto di questa insubordinazione in questo caso sono le istituzioni, bisogna essere all’erta e cogliere il messaggio vero: l’uso di questo linguaggio è in sè un atto eversivo. Se la classe dirigente si esprime così in Parlamento, nei vari circhi televisivi e nelle interviste, il pubblico la imiterà».
Non si potrebbe dire più chiaramente: il turpiloquio, se usato dalle alte cariche dello Stato, corrode i fondamenti della vita sociale. E delle stesse istituzioni: un leader volgare, alla lunga, deve aspettarsi lo stesso trattamento dai cittadini. Chi di spada ferisce, di spada perisce. L’uso di un linguaggio scurrile è, alla lunga distanza, un boomerang per chi riveste una carica istituzionale elevata che pretende rispetto. Il turpiloquio, infatti, è per sua stessa natura un linguaggio “abbassante”, perché riduce le persone alla loro dimensione gastrico-metabolica o sessuale.
2) SE UN CAPO DI STATO INSULTA UN CITTADINO

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Altare della Patria,in occasione della Festa Nazionale della Repubblica
Il terreno diventa più insidioso se il leader politico dice una particolare categoria di parolacce: gli insulti. In tal caso, ci possono essere due scenari: o insulta un comune cittadino, oppure un altro potere. Partiamo dal primo caso.
Se un leader politico insulta un comune cittadino, lo fa da una posizione privilegiata e protetta: in Italia, ad esempio, se offendo una persona qualunque rischio al massimo 3 anni di reclusione (è la pena massima per il reato di diffamazione), ma se offendo il presidente della Repubblica rischio fino a 5 anni di galera. Altre pene (reclusione fino a un anno) sono previste per chi offende il governo. E leggi simili sono vigenti anche in altre nazioni, per tutelare l’onore delle istituzioni.
Peraltro, i leader populisti sono molto permalosi, sia per gli insulti o anche per la satira: basti ricordare che fra il 1926 e il 1943, il regime fascista denunciò 5mila persone per aver imprecato contro il duce, raccontato una barzelletta dissacrante o sfregiato la sua immagine. Di questo esercito di oppositori, 1.700 furono inviati al confino, 300 spediti in galera e 3mila diffidati (racconto le loro storie qui).

Parigi, una manifestazione di protesta contro la frase di Sarkozy
Tornando ai giorni nostri, in Francia, nel 2008 aveva sollevato un forte scandalo la frase «Casse-toi pov’ con» (Vattene, povero coglione!) detta dall’allora presidente Nicolas Sarkozy a uno dei presenti alla Mostra dell’agricoltura che si era rifiutato di dargli una mano. Lo stesso Sarkozy, 8 anni dopo, nel suo libro “France for life” aveva ammesso che la sua reazione, mettendosi allo stesso livello del suo interlocutore, «aveva svilito le funzioni presidenziali».
È GIUSTO SILENZIARE UN LEADER IRRISPETTOSO?

Il comunicato ufficiale di Twitter che sospende l’accaount di Trump
Sulle piattaforme social, se ti comporti da attaccabrighe irrispettoso (da troll o da cyberbullo, per intenderci) di solito vieni silenziato o espulso. Ma se si comporta così un capo di Stato? La questione si è posta tempo fa, ai tempi del primo mandato di Donald Trump. Nel 2018, Trump ricevette molte critiche per un Tweet nel quale vantava la potenza del suo “pulsante nucleare” rispetto a quello del leader nordcoreano Kim Jong-un. E anche Twitter fu attaccata, perché usava due pesi e due misure: di solito, censurava i contenuti di odio e sospendeva gli account degli autori, ma nel caso di Trump no.
Jack Dorsey, fondatore della piattaforma, obiettò che bloccare un leader eletto o rimuovere i suoi tweet controversi avrebbe nascosto informazioni importanti che le persone dovrebbero poter vedere e discutere: i leader eletti giocano un ruolo critico nella conversazione pubblica globale e che i loro tweet, anche se controversi, sono parte integrante del dibattito pubblico. La situazione cambiò radicalmente dopo l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021. Due giorni dopo, l’8 gennaio, Twitter sospese permanentemente l’account di Trump, temendo il rischio di ulteriore incitamento alla violenza.
Poi, sappiamo tutti com’è andata: il 19 novembre 2022, Elon Musk, nuovo proprietario di Twitter, ha deciso di riammettere Trump, anche se nel frattempo il presidente aveva fondato una propria piattaforma social simile a Twitter: Truth. E nel febbraio 2025, X (ex Twitter) ha raggiunto un accordo con Trump, versandogli circa 10 milioni di dollari per risolvere la causa legale relativa alla sospensione del suo account.
LE SENTENZE: I POLITICI DEVONO TOLLERARE LE CRITICHE PESANTI

L’attivista Piero Ricca
Per controbilanciare l’asimmetria di potere fra chi governa e chi è governato, la Corte europea per i diritti dell’uomo, in vari pronunciamenti, ha stabilito un principio importante: i politici devono tollerare un grado più elevato di critica rispetto ai cittadini comuni, anche quando tale critica utilizza un linguaggio forte o provocatorio. Questo principio si basa sull’importanza della libertà di espressione in una società democratica ed egualitaria. «Il diritto di critica politica, il cuore stesso di una società democratica, è il suo baricentro, e quindi, ogni limitazione di tale diritto deve essere valutata assai attentamente. In quest’ottica, il limite della critica nei confronti dei politici deve intendersi ancora più ampio che nei confronti degli altri cittadini», recita la sentenza del caso Lingens (1986).
E anche la Corte di Cassazione, in Italia, ha lo stesso orientamento: nel 2006 annullò la multa inflitta al giornalista e attivista Piero Ricca che aveva detto al premier Silvio Berlusconi, in Tribunale per il processo Sme «Buffone, fatti processare!». Secondo la Corte, si trattava di “forti critiche” proporzionate all’evento e non di offese gratuite.
La critica politica, scrive la sentenza, «può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria». Le espressioni adoperate da Ricca non possono essere considerate offensive, ma «di forte critica, speculare per intensità al livello di dissenso nell’ambito politico e nell’opinione pubblica per la delicatezza dei problemi posti ed affrontati dalla persona offesa, critica occasionata dal vulnus che il Ricca riteneva inferto a valori primari dello stato di diritto, come quello dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e ai giudici che la applicano». Dunque, mentre un capo di Stato non deve insultare un comune cittadino, può valere il contrario: un comune cittadino può insultare un capo di Stato purché sia una forma di protesta motivata e non un attacco gratuitamente svilente. Questa dinamica fa parte dei delicati equilibri della democrazia, che non può tollerare disuguaglianze e asimmetrie di potere.
3) SE UN POTERE INSULTA ALTRI POTERI: I GUAI DI BOSSI, BERLUSCONI E TRUMP
Un capo di Stato può spingersi in territori ancor più ardui, se dalla propria posizione insulta altri poteri dello Stato: si crea un cortocircuito che mette a rischio la tenuta del sistema democratico. Ricoprire una carica in un sistema democratico implica l’accettazione delle regole di quel sistema, e il rispetto per chi lo rappresenta: mancare di rispetto significa rompere quelle regole (e quel sistema). Chi guida un’istituzione dovrebbe essere al di sopra delle parti e rispettare gli altri poteri: se non lo fa, tradisce la natura stessa del ruolo che riveste. Ecco perché i leader che hanno derogato a questo rispetto hanno dovuto pagarne le conseguenze, sia politiche che giudiziarie.
E quale esempio danno le istituzioni ai cittadini se i suoi rappresentanti sono i primi a non rispettarsi fra loro? Nel Regno Unito, nel 2013 il capogruppo dei Conservatori alla maggioranza, Andrew Mitchell, un ricco banchiere, aveva dato del “plebeo del cazzo” a un poliziotto, che l’aveva denunciato. Pur avendo negato di aver detto quella frase, alla fine ha dovuto dimettersi dalla carica.

Berlusconi fa il dito medio
Ma anche in Italia abbiamo vissuto scenari simili. L’intera carriera di Berlusconi è stata caratterizzata dall’uso di insulti contro gli avversari, come ricordano il Fatto quotidiano e l’Espresso: non solo gli esponenti del centro-sinistra («Veltroni è un coglione», «Prodi gran bugiardo»), ma anche presidenti della Repubblica («Scalfaro serpente, traditore e golpista») e istituzioni come la magistratura («i giudici sono matti»; «toghe rosse»). E questo ha creato un clima di scontro, di tutti contro tutti: a sua volta, Berlusconi è diventato oggetto di dileggio da parte degli avversari, che lo hanno apostrofato con nomignoli svilenti, da “Caimano” a “Psiconano” (il giornalista Francesco Merlo ne ha raccolti più di 50).
Per alcuni di questi insulti Berlusconi fu condannato: nel 2009, durante la campagna elettorale per le regionali in Sardegna, Berlusconi definì l’allora governatore uscente Renato Soru (PD) un “fallito”; 10 anni dopo il tribunale civile di Cagliari condannò Berlusconi a risarcire Soru con 40.000 euro per diffamazione. E per aver definito “magistrato indegno” l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, uno dei pm del processo Mills, Berlusconi fu condannato a pagargli un risarcimento di 50mila euro.

Bossi fa il dito medio
E’ andata peggio al fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, che nel 1997 (nella veste di segretario federale) insultò il Tricolore – il simbolo dell’identità nazionale – durante due comizi: a Cabiate disse «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso soltanto per pulirmi il culo»; a Venezia, disse a una signora che lo esponeva «Il tricolore lo metta al cesso». Bossi fu denunciato per vilipendio al Tricolore e il Tribunale di Como lo condannò a 1 anno e 4 mesi di reclusione. L’articolo 292 del Codice Penale prevede infatti la pena della reclusione da 1 a 3 anni per chi ingiuria la bandiera.
Lui fece appello, e in quell’occasione la Camera dei Deputati lo difese sostenendo che quelle dichiarazioni rientravano nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, quindi erano insindacabili. Ma nel 2006 la Corte Costituzionale annullò la delibera della Camera, stabilendo che le frasi pronunciate non erano coperte dall’insindacabilità parlamentare. E la Corte d’Appello di Milano confermò la responsabilità di Bossi, ma trasformò la pena in una multa di 3.000 euro perché una legge del 2006 (governo Berlusconi III) aveva cancellato le pene detentive per vilipendio alla bandiera, oggi punito con una multa da 1.000 a 5.000 euro.
E non fu l’unica condanna del genere per Bossi. Nel 2011 disse a un comizio: «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Nel 2015 il Tribunale di Bergamo condannò Bossi a 18 mesi di reclusione per vilipendio al Presidente della Repubblica; nel 2017 la Corte d’Appello di Brescia ridusse la pena a 1 anno e 15 giorni di reclusione, e nel 2018 la Corte di Cassazione confermò la condanna, rendendola definitiva. Nel 2019, Sergio Mattarella concesse la grazia a Bossi.

Trump durante un congresso dei conservatori
Ora, con Trump, questa dinamica si propone su scala planetaria: il presidente degli Usa, una delle nazioni più potenti della Terra, si sente libero di insultare i Paesi meno potenti. Lo fece già nel 2018 quando, incontrando alcuni membri del Congresso nello Studio Ovale: a parlamentari e senatori che gli chiedevano di non togliere lo status di protezione a migliaia di immigrati da Haiti, El Salvador e da alcuni Paesi africani, Trump rispose: «Perché stiamo facendo venire qui tutte queste persone da Paesi di merda?». L’espressione originale era “shithole countries”, dove shithole è letteralmente il “buco per la merda”, ovvero la latrina. Risultato: il governo del Botswana ha convocato l’ambasciatore americano per ricevere chiarimenti; El Salvador ha chiesto ufficialmente “rispetto” al presidente americano; l’ambasciatore americano a Panama, John Feeley è arrivato a dimettersi per la vergogna. E l’Unione Africana (Ua), l’organizzazione che rappresenta i 55 Stati del continente, ha scritto un comunicato per protestare contro le parole offensive di Trump. «L’Unione Africana intende esprimere la sua rabbia, la sua delusione e indignazione per questo sfortunato commento», ha dichiarato la rappresentanza dell’Unione Africana presso la Nazioni Unite, dopo una riunione d’emergenza sul caso. Gli ambasciatori africani hanno espresso «preoccupazione per la costante e crescente tendenza dell’amministrazione Usa a denigrare il continente africano e le persone di colore» e hanno condannato «le indegne, razziste e xenofobe affermazioni del presidente degli Stati Uniti» reclamando che «vengano ritrattate».

Trump mentre dice che i Paesi “gli baciano il culo”
Dello stesso tenore la dichiarazione dello scorso aprile, quando Trump si è compiaciuto davanti al mondo che altri Paesi gli “bacino il culo”. L’espressione ha fatto clamore, non solo perché è una frase scurrile: è soprattutto un atto di dileggio e di umiliazione nei confronti dei Paesi messi in difficoltà dai dazi statunitensi. Fa poca differenza che Trump non ne abbia fatto i nomi. La vera notizia è stato il suo atteggiamento: nessuna empatia, anzi, l’autocompiacimento nel vederli in difficoltà e sottomessi, proprio per effetto delle sue politiche economiche aggressive. Senza alcuna concessione alla correttezza, all’etica o alla diplomazia nei rapporti internazionali. Dunque, se Trump vuole “rendere di nuovo grande l’America” non lo fa ritagliandole un ruolo di arbitro mondiale al di sopra delle parti, bensì di potenza predatrice e prevaricatrice. Il leader del Paese più potente del mondo dà il cattivo esempio a tutti gli altri, e le conseguenze non potranno che essere negative e, a lungo termine, un boomerang anche per lui stesso.
Cronologia degli insulti politici
Concludo questa lunga analisi con una cronologia dei più rilevanti insulti pronunciati dai leader politici degli ultimi 80 anni, oltre a quelli già citati sopra.
BENITO MUSSOLINI

Un comizio di Mussolini
Le cronache non hanno consegnato molti episodi di parolacce pronunciate da Benito Mussolini, ma c’è un motivo: nei giornali d’epoca e nei documenti ufficiali, qualsiasi accenno a linguaggio scurrile era eliminato o sostituito da eufemismi. Il regime promuoveva un’immagine idealizzata e paternalista di Mussolini, pertanto anche se avesse pronunciato parolacce in pubblico, i cronisti non le avrebbero riportate. Al massimo, si faceva riferimento a «linguaggio vigoroso» o «parole forti».
Il duce, però, ne diceva eccome: aveva un carattere sanguigno, e bestemmiava spesso. Quando, a 23 anni, insegnava come maestro elementare a Tolmezzo (Udine), fu richiamato dal consiglio scolastico e denunciato da alcuni genitori, pare che gli scappassero delle bestemmie durante le lezioni: lo scrive Giordano Bruno Guerri nel libro “Benito, storia di un italiano” (Rizzoli). Nel 1922, pochi mesi prima di salire al governo, disse che «La Camera italiana fa schifo, ma tanto schifo» e i deputati sono «una banda di idioti e postulanti, un bubbone pestifero che avvelena il sangue della nazione». Il suo stile oratorio aggressivo, che mantenne quando salì al potere, era lo strumento ideale per affermare la propria dimensione di “macho” e di “uomo con gli attributi”, osserva Benedetta Cicognani nel libro “Onorevole parolaccia” (Franco Angeli).
Alcune sue parolacce sono registrate nei diari di Galeazzo Ciano (“Diario 1937-1943”, Rizzoli): «Il Duce era in forma: aggressivo e antibritannico. Ha detto degli inglesi: un popolo che pensa col culo». 14 settembre 1937. «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento magari a calci in culo. Così farò io». 11 aprile 1940.
Altre espressioni sono citate dai diari di Claretta Petacci (“Mussolini segreto: Diari 1932-1938): «Questi porci di francesi ci temeranno quando noi li bastoneremo». «Questi schifosi di ebrei sono carogne, nemici e vigliacchi». Gli italiani sono «vigliacchi, pezzenti con il culo pieno di paura e di comodo» (1938).
GUGLIELMO GIANNINI E L’UOMO QUALUNQUE

Guglielmo Giannini e il simbolo dell’Uomo qualunque
Il Fronte dell’uomo qualunque fu un giornale satirico e poi un movimento politico fondato nel 1946 dal giornalista Guglielmo Giannini. Il simbolo era un torchio che schiaccia un uomo: è il simbolo della classe politica che opprime il borghese, l’uomo qualunque. Il movimento esaltava il singolo individuo e il suo lavoro, la famiglia, la proprietà, l’ordine e la legge. Lo slogan era scurrile: «Ciò che noi chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della Comunità e dello Stato è che nessuno ci rompa più i coglioni». Un paese felice è quindi quello che non è costretto a occuparsi del proprio governo, nel quale lo stato si limita all’amministrazione lasciando che i cittadini godano della maggiore libertà civile. Senza i «politici professionali che vivono rompendo i coglioni alla gente, di nient’altro preoccupandosi se non degli stipendi e delle prebende che con quella rottura di coglioni riescono a estorcere».
Il movimento aveva diversi aspetti in comune con il Movimento 5 stelle, non solo per la sua carica “antipolitica” ma anche per l’uso di espressioni scurrili e nomignoli da parte del suo fondatore, il comico Beppe Grillo. Infatti, la testata di Giannini aveva una rubrica “Pdf” (Pezzo di fesso) nella quale metteva alla berlina i rivali politici. Pietro Nenni era definito «il foruncolo al culo della vita politica italiana», Pietro Nenni «capp’e provola», Ferruccio Parri diventava Fessuccio Parri, Benedetto Croce diveniva Maledetto Croce, Churchill “Un pagliaccio da non prendere sul serio” e Roosevelt “un pazzo, il più massiccio dei cretini”.
Il movimento politico ebbe vita breve: nel 1948, nonostante le massicce vendite del giornale, rimase isolato e fu cancellato dall’ascesa della Dc. A differenza del M5s, però, non è mai andato al potere,ed è una differenza enorme: ha potuto continuare (per poco) a insultare tutto e tutti senza scendere a compromessi con il potere e senza preoccuparsi di mantenere un rispetto delle istituzioni.
UMBERTO BOSSI

Uno dei manifesti xenofobi della Lega
La Lega Nord nasce nel 1991, e la comunicazione del partito di Umberto Bossi segnò una rottura rispetto al passato. Si fece portavoce del malcontento delle piccole e medie imprese del Nord («il Nord è incazzato»), non esitò a definire «Roma ladrona» il governo e il Parlamento (salvo poi farne parte), e a dire che «Le case si danno anzitutto ai lombardi e non al primo Bingo Bongo che arriva». Celebri i manifesti contro gli immigrati, con lo slogan «Fuori dalle balle». E non lesinò insulti anche agli avversari politici, compreso Berlusconi di cui poi diventò alleato: lo definì «suino Napoleon», «Nazista, nazistoide, paranazistoide», «mafioso di Arcore» e molto altro.
Il suo successore, Matteo Salvini, ha ereditato questo approccio, ma negli ultimi anni lo ha mimetizzato in maniera più subdola, utilizzando termini apparentemente neutri per sbeffeggiare e svilire gli avversari: frequente il suo ricorso a suffissi accrescitivi, che assumono la valenza di presa in giro squalificante (“professoroni”, “giornaloni”, “intellettualoni”, “simpaticoni” e così via. Poi ci sono le sue prese di posizione su immigrati, giornalisti, criminali: «I GIORNALISTI italiani mi fanno SCHIFO»; «I Rom sono pure insoddisfatti… Volevano case più belle e più grosse! Mavaffanzum; Romeno ubriaco, incidente a Roma, UCCIDE BIMBA di 9 anni. Tra qualche giorno libero? LAVORI FORZATI PER 30 ANNI!», e così via sui social. Salvini, insomma, riesce a essere squalificante, provocatorio e divisivo anche se non utilizza un linguaggio scurrile.
FRANCESCO COSSIGA, PRESIDENTE PICCONATORE

Cossiga alla scrivania
Negli ultimi anni da presidente della Repubblica (1990-1992), Francesco Cossiga fece una serie di esternazioni sarcastiche e volutamente provocatorie nei confronti di alcune personalità politiche: definì Ciriaco De Mita «bugiardo, gradasso, il solito boss di provincia»; Paolo Cirino Pomicino «un analfabeta»; Achille Occhetto «uno zombie con i baffi» e così via.
Per questo fu soprannominato il “Picconatore“: un atteggiamento polemico dovuto, secondo alcuni, alla sua delusione verso il sistema dei partiti che considerava impantanato, per dar loro una scossa, o forse per il deteriorarsi dei rapporti interni con i colleghi di partito della Dc. A prescindere dalle motivazioni, fu il primo presidente a esprimersi senza filtro, usando alle volte anche parolacce. Sì definì «Un grandissimo rompicoglioni», usò espressioni come «avevano una paura fottuta» e fece scalpore una dichiarazione nel 1992 alla base militare di Ronchi dei Legionari (Go): «E voi volete che gli appartenenti alle forze dell’ordine non si incazzino se vedono che tutto l’impegno del governo è per l’obiezione di coscienza? Mi sarei incazzato anch’io, come mi sto incazzando».
SILVIO BERLUSCONI

Silvio Berlusconi e Martin Schulz
Quando arrivò a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi non rinunciò al suo linguaggio colloquiale, e anzi lo sfruttò per guadagnarsi le simpatie degli elettori. E fu probabilmente il primo leader a portare il turpiloquio nella politica internazionale, ben prima di Trump.
2003: Berlusconi, allora premier, era a Strasburgo, al Parlamento europeo, per inaugurare il semestre di presidenza italiana. Il deputato tedesco Martin Schulz, della Spd, l’aveva criticato per il suo conflitto di interessi e i suoi guai con la giustizia. Ed ecco la replica del Cavaliere: «So che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò». Durissima la replica di Schulz: «Il rispetto delle vittime del fascismo e del nazismo mi impediscono di commentare le sue parole. Mi chiedo se chi è capace di dire certe cose, può essere in grado di svolgere una funzione pubblica». L’assemblea gli ha fatto un lunghissimo applauso e il presidente dell’assemblea si è detto «personalmente dispiaciuto per le offese ricevute da Schulz». Berlusconi si difese dicendo di aver usato il termine in senso ironico, ma il caso ha incrinato per mesi i rapporti diplomatici fra l’Italia e la Germania.
2005: Durante un comizio a Bolzano per sostenere la candidatura Michaela Biancofiore, Berlusconi dal palco racconta un aneddoto. «Mia mamma mi diceva: “Silvio, tutti ti vogliono bene”. Ma io le ho detto: “Mamma, stavo entrando qui, uno in auto che mi ha riconosciuto che mi ha fatto così (e fa il dito medio, ndr). Mia mamma ha detto: “Allora di cosa ti lamenti? Voleva dire che sei il numero uno, il migliore!”». Anni dopo la Biancofiore ha rivelato che il gesto era rivolto anche ad alcune persone del pubblico che lo contestavano.
2006: Durante la campagna elettorale, Berlusconi, premier uscente, interviene alla Confcommercio. Dicendo quanto segue: «Ho troppa stima dell’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse». La frase suscitò l’indignazione dei simpatizzanti del centro-sinistra, che protestarono scendendo nelle piazze con cartelli in cui reclamavano con orgoglio «Sono un coglione».
BEPPE GRILLO

Un gesto eloquente di Beppe Grillo
Uno dei primi atti costitutivi del movimento, nel 2007, fu uno slogan-parolaccia: il “Vaffanculo day” (o V-Day), una giornata di mobilitazione pubblica per raccogliere le firme necessarie a presentare una legge di iniziativa popolare che impedisse la possibilità di candidare in Parlamento i condannati penali o chi avesse già espletato due legislature. Un modo per incarnare il dissenso verso il sistema politico. Il movimento è nato con forti accenti populisti: la lotta alla “casta” dei politici di professione, l’esaltazione della “gente comune”.
Per tutto il tempo delle origini, il Movimento 5 stelle è stato guidato dal personalismo del suo fondatore, il comico Beppe Grillo, abituato a usare un linguaggio colorito nei suoi show. Celebri i soprannomi con cui Grillo ha dileggiato i propri avversari: Psiconano (Berlusconi), Renzie (Renzi), Rigor Montis (Monti). Nel 2003 patteggiò una condanna in Tribunale per aver definito «vecchia puttana» la scienziata RIta Levi Montalcini.
RODRIGO DUTERTE

Rodrigo Duterte fa il dito medio
E’ stato presidente delle Filippine dal 2016 al 2022. E’ divenuto celebre per aver condotto una violenta lotta al narcotraffico, così violenta che dallo scorso marzo Duterte è stato arrestato su mandato della Corte penale internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità. Oltre che per questo motivo, è stato celebre per le sue scurrili esternazioni in politica internazionale (ne ho già parlato qui):
30 novembre 2015: Durante una convention del partito PDP-Laban, Duterte ha espresso frustrazione per il traffico causato dalla visita di papa Francesco a Manila, dicendo: «Papa, figlio di mignotta [Putang Ina Ka], tornatene a casa. Non tornare più a farci visita». Successivamente si è scusato per l’insulto.
4 giugno 2016: In risposta alle critiche dei media stranieri, ha dichiarato: «Vaffanculo [fuck you] ONU, non riesce nemmeno a risolvere le carneficine in Medio-Oriente… e non riesce nemmeno ad alzare un dito in Africa… Chiudete il becco tutti quanti!».
8 agosto 2016: Durante un incontro con le forze armate, ha detto: «Avevamo parlato con Kerry. Con lui è tutto a posto, anche se ho litigato con il loro ambasciatore, Philip Goldberg, quel frocio [bakla]. Figlio di puttana [putang ina], mi infastidisce davvero».
9 settembre 2016: Al summit ASEAN in Laos, ha commentato: «Ban Ki-Moon (segretario generale dell’Onu) ha fatto un’altra dichiarazione sui diritti umani. Sei un altro stronzo/rincoglionito [tarantado]».
21 settembre 2016: In un discorso a Davao, ha reagito alle critiche dell’UE sulla sua campagna antidroga dicendo: «Ho letto la condanna dell’UE contro di me. Dirò loro: “Fanculo” (fuck, alzando il dito medio). In realtà lo stai facendo per espiare i tuoi peccati: basta leggere i libri di storia per vedere che i Paesi europei hanno ucciso migliaia di persone in passato. E hanno la faccia tosta di condannare me… Lo ripeto: andate affanculo».
BORIS JOHNSON

Boris Johnson durante una conferenza stampa
E’ stato premier conservatore nel Regno Unito dal 2019 al 2022. E’ finito nella bufera per aver detto, durante la pandemia: «Niente più lockdown del cazzo – lasciate che i cadaveri si accumulino a migliaia» («No more fucking lockdowns – let the bodies pile high in their thousands») durante una discussione con lo staff a Downing Street. Lui negò, ma diversi testimoni l’hanno confermato.
Boris Johnson ha definito i francesi «turds» (letteralmente «stronzi») in un commento registrato durante le riprese di un documentario della BBC mentre ricopriva il ruolo di ministro degli Esteri del Regno Unito. L’episodio risale al periodo delle negoziazioni sulla Brexit, tra il 2017 e il 2018.
Secondo quanto riportato dal Daily Mail e confermato da diverse testate giornalistiche, Johnson ha espresso frustrazione per l’atteggiamento dei negoziatori francesi, accusandoli di «shafting Britain» («fregare la Gran Bretagna») e definendoli «turds». Queste dichiarazioni sono state registrate durante la realizzazione della serie documentaristica della BBC Inside the Foreign Office. Tuttavia, su richiesta del Foreign Office, la BBC ha deciso di tagliare la parte in cui Johnson utilizzava il termine «turds», ritenendo che potesse danneggiare le relazioni anglo-francesi.
JAVIER MILEI

Milei con la sua celebre motosega
Il presidente dell’Argentina è un esponente della destra populista. Durante la campagna elettorale definì il suo connazionale papa Bergoglio «imbecille, comunista e presenza maligna» (salvo poi scusarsi). E’ diventato celebre, oltre che per brandire la motosega (come simbolo dei tagli alle spese inutili e alla burocrazia), per il suo motto scurrile: «Viva la libertad, carajo!» ovvero «Viva la libertà, cazzo!». Durante la sua presidenza ha definito «babbuini» (mandriles) i suoi avversari politici, «bustarellari» e «idioti» i giornalisti non schierati.
All’inizio del 2025 ha emanato una risoluzione che reintroduceva nei documenti ufficiali di assegnazione delle pensioni di invalidità alcuni termini obsoleti e offensivi (idiota, imbecille, ritardato) per classificare le disabilità intellettive. Una decisione, ha detto, per «chiamare le cose con il loro nome», un attacco al politically correct. Di fronte alle proteste anche internazionali (l’uso di tali termini viola la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Argentina) il provvedimento è stato congelato.
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Ho parlato di questo argomento in un’intervista pubblicata dal settimanale “Gente“.