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«@&%! Lo stiamo perdendo!». Le parolacce dei chirurghi

Un chirurgo che impreca visto da ChatGPT

Il video è finito su tutti i social e sui giornali: in una sala operatoria del Policlinico di Tor Vergata, un chirurgo urla parolacce a una collega. Per questo episodio il presidente della Regione Lazio ha chiesto che quel medico sia estromesso dalle sale operatorie e dall’attività didattica.
Al di là del caso singolo (tutto da chiarire) trovo che episodi del genere non siano affatto rari, anzi: sono piuttosto frequenti in sala operatoria, e in questo articolo spiegherò perché. Aggiungendo che la “tolleranza zero” verso il turpiloquio durante un intervento chirurgico sia esagerata e soprattutto inattuabile. «Con questo criterio» ha commentato un amico chirurgo di lunga esperienza «verrebbero puniti tremila medici al giorno».
Ecco perché ho deciso di approfondire l’argomento, anche grazie ad alcuni studi scientifici che hanno indagato la diffusione (tutt’altro che rara) delle parolacce negli ospedali. Quando c’è in ballo la salute, la vita o la morte, le parolacce sono le espressioni più usate per esprimere le emozioni forti. E non solo in sala operatoria.

L’episodio di Roma

Per introdurre l’argomento, è utile ricordare che cosa sappiamo sull’episodio balzato sulle cronache. E’ il 6 giugno, e al Policlinico di Tor Vergata il primario della chirurgia mininvasiva, Giuseppe Sica, sta eseguendo un intervento complesso, durato 5 ore, con l’aiuto di un robot. Nel video (girato da qualcuno che vi aveva assistito) si sente il chirurgo urlare: «Hai capito come funziona questo cazzo di intervento? Io sto dall’altra parte, non sto al tavolo operatorio, imbecille! Se tu non mi parli, io come cazzo lo capisco? …Quattro volte ti ho chiesto dove sta la pinza. Devi parlare, imbecille! Vergognati! Togliti dal cazzo. Te ne devi andare e non ti voglio più vedere in camera operatoria».

Video

Sica si stava rivolgendo alla sua assistente, Marzia Franceschilli, 37 anni. Che ha denunciato il primario, affermando che le avrebbe «sferrato un colpo alla nuca» (accusa ancora da accertare). Dopo che il caso è finito su tutti i giornali, il Policlinico ha avviato un’indagine interna. Il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, ha preso una posizione netta: «Questo chirurgo che ha pronunciato certe frasi e picchiato la sua assistente non deve più entrare in sala operatoria né entrare in contatto con gli studenti». Il Policlinico sta valutando misure disciplinari, come due mesi di sospensione dal lavoro. Insomma, una punizione esemplare

In corsia come in trincea

Un intervento di chirurgia robotica

Il diretto interessato, dopo i clamori delle cronache, ha diffuso un comunicato in cui ha presentato le sue scuse: «Riconosco che i toni usati nei confronti di una collega assistente durante quell’intervento, protrattosi per oltre cinque ore, sono stati eccessivi e dettati da uno stato di forte tensione e stress emotivo. Per questo, desidero esprimere pubblicamente le mie scuse sincere e personali alla collega coinvolta». 

E ha aggiunto alcune considerazioni sulle quali – a prescindere da come siano andate realmente le cose – mi trovo per lo più d’accordo: un’operazione chirurgica come quella, ha detto il protagonista, è come un «fronte dove si combatte tra la vita e la morte. In quei momenti, ogni secondo conta. La responsabilità è mia, totalmente mia. E se percepisco un rischio concreto per il paziente, è mio dovere reagire. Il nostro ordinamento giuridico chiama questo comportamento “stato di necessità” ed è un’esimente assoluta».
Su quest’ultima frase, tuttavia, non sono del tutto d’accordo: un conto sono le imprecazioni, altro gli insulti, come chiarirò più sotto.
Ma per ora soffermiamoci su un aspetto importante, da tener presente quando si giudicano le parolacce in sala operatoria: c
hi esegue un’operazione chirurgica ha nelle proprie mani la vita di un altro essere umano. E questo genera uno stato di tensione molto elevato. E che cosa facciamo quando siamo tesi, nervosi, angosciati, stressati, spaventati, stanchi – in una parola, quando proviamo un forte dolore? La reazione più spontanea e immediata per sfogarci è imprecare. Basta ricordare alcuni modi di dire che collegano il turpiloquio al dolore fisico: bestemmiare come un camallo, un camionista, un fabbro, un marinaio (lo racconto in questo articolo). Perché quando proviamo un’emozione forte, reagiamo dicendo parole forti. Le uniche che riescono a esprimere e a sfogare un dolore di per sé indicibile, indescrivibile.

Le imprecazioni aiutano a sfogare i dolori del travaglio

Tanto più – come hanno dimostrato diverse ricerche – che le parolacce hanno effettivamente un effetto ipoalgesico, cioè riescono a ridurre la percezione del dolore: in un esperimento di qualche tempo fa lo psicologo britannico Richard Stephens , ha chiesto ai partecipanti di immergere la mano in acqua ghiacciata e di sfogarsi dicendo una parolaccia o una parola neutra. I risultati (l’ho raccontato qui) hanno mostrato che chi pronunciava parolacce riusciva a tollerare il dolore più a lungo (il 30% di tempo in più) e percepiva meno dolore rispetto a chi usava parole neutre. Secondo Stephens,  l’effetto ipoalgesico delle parolacce è dovuto all’attivazione della risposta “lotta o fuga”, che comporta un aumento della frequenza cardiaca e il rilascio di adrenalina, contribuendo a ridurre la percezione del dolore . La risposta “lotta o fuga” è una reazione automatica e ancestrale del nostro corpo a una minaccia, a cui possiamo reagire o affrontandola o fuggendo.

L’idea di questo esperimento, ha rivelato Stephens, è nata proprio in una sala operatoria: nel 2004 aveva affiancato la moglie durante il parto, e l’ha sentita  imprecare come un marinaio nei momenti di dolore intenso. Le ostetriche hanno rivelato a Stephens, sorpreso dalla reazione della moglie, che imprecare è una reazione molto comune durante il parto, per sfogare il dolore. Ancora una volta, dolore e imprecazioni vanno a braccetto.

Volgarità in reparto

Un paziente in arrivo al pronto soccorso

Ma quanto sono diffuse le parolacce negli ospedali? Molto, come mostra una ricerca scientifica pubblicata 10 anni fa sul British Medical Journal (BMJ), una delle riviste mediche più autorevoli al mondo.
Lo studio ricorda due casi avvenuti  nel Regno Unito, molto simili a quello italiano: nel 2013, un chirurgo che stava eseguendo un’appendicectomia laparoscopica ha perso la pazienza, ha urlato e imprecato contro i colleghi; ha lanciato un pezzo dell’equipaggiamento e gli è stato intimato di lasciare la sala operatoria. Dopo ulteriori preoccupazioni sul suo comportamento, è stato deferito al  General Medical Council  e sospeso dall’albo dei medici per 12 mesi.
In un altro episodio, avvenuto nel 2009, un chirurgo urlò: «Questa è una merda!» quando gli fu detto che un intervento avrebbe richiesto fino a tre ore. Fu radiato dall’albo dei medici nel febbraio 2012. In ambo i casi, il consiglio disciplinare dei medici si è detto preoccupato che quei comportamenti potessero danneggiare la fiducia del pubblico nella professione medica, perché imprecare è un comportamento poco professionale. Vero. Ma è anche vero, dice lo studio, che «le parolacce sono spesso usate da chi lavora sotto pressione, è un canale catartico per sfogare pulsioni aggressive».

Uno sfogo che però non è uguale per tutti, sottolinea lo psicologo Timothy Jay: «La libertà d’imprecare è una questione di potere all’interno del sistema gerarchico: i medici imprecano contro gli infermieri, ma gli infermieri non imprecano contro i medici. I pazienti e le loro famiglie imprecano contro gli infermieri, ma meno contro i medici. Questo è uno dei motivi per cui così tanti infermieri lasciano il lavoro». Lo studio evidenzia anche alcuni aspetti positivi nell’uso del turpiloquio: ad esempio può aiutare un medico a costruire una relazione di confidenza con pazienti adolescenti. Ma qui mi fermo: il turpiloquio è un comportamento ricco di significati e di implicazioni molto diverse fra loro, che sarebbe troppo lungo affrontare qui.

I più scurrili? Gli ortopedici

Un ortopedico con un trapano operatorio

Ma torniamo alla sala operatoria. Anni prima, nel 1999, il BMJ aveva pubblicato un’interessante ricerca sul campo, realizzata da un medico italiano, Fausto Palazzo. Che ha registrato 100 interventi di vario genere in anestesia generale al Royal Berkshire Hospital di Reading, Regno Unito, conteggiando (all’insaputa dei colleghi) le parolacce che dicevano. Per ciascuna di esse ha assegnato un punteggio proporzionato in base alla loro intensità: 1 punto per le espressioni di origine religiosa (“Dio”, “Va all’inferno”), 2 punti per i termini escrementizi (merda), e 3 punti per quelle più pesanti (fottiti, stronzo, bastardo).

Su un tempo operatorio complessivo di 80 ore e 30 minuti, sono stati assegnati in tutto 94 punti: in pratica, un punto (una parolaccia) ogni 51,4 minuti. Considerando che tutti gli interventi esaminati erano elettivi (cioè programmati), questa potrebbe essere solo «la punta di un iceberg molto più esteso, poiché il linguaggio scurrile potrebbe aumentare ulteriormente durante gli interventi d’urgenza», afferma la ricerca: provate a immaginare un intervento d’urgenza in condizioni proibitive… E’ più probabile che una persona dica «Accipicchia, lo stiamo perdendo!» o «Cazzo, lo stiamo perdendo»?
Bisogna però fare una distinzione importante, fra le parolacce. Un conto sono le imprecazioni (“Porca puttana!”), ben altro conto sono gli insulti (“puttana!”), come ha acutamente osservato dal dottor Palazzo (oggi chirurgo endocrinologo all’Ospedale di Hammersmith), da me interpellato per un parere su questo argomento. «Imprecare durante un’operazione può non essere insolito, ma insulti personali verso i membri dello staff difficilmente creeranno un’atmosfera favorevole ai migliori risultati chirurgici per i pazienti, così come un pilota di aereo che urla al copilota difficilmente garantirà un volo più sicuro».

Tornando alla ricerca, gli specialisti più scurrili sono risultati gli ortopedici (16,5 punti), seguiti da chirurghi generali (10,6), ginecologi (10) e urologi (3,1): gli ortopedici hanno detto in media una parolaccia ogni 29 minuti, più del doppio rispetto alla media dei chirurghi. Come spiegare questo risultato? «Probabilmente è l’uso di strumenti complicati (trapani, seghe, pinze, chiodi, martelli) a incoraggiare il linguaggio sboccato», scrivono gli autori della ricerca. Del resto, non si dice “bestemmiare come un fabbro?”.  Pur nell’evidente differenza culturale, sul piano fisico i due lavori utilizzano strumenti simili, con la differenza che gli ortopedici hanno nelle loro mani la vita o l’incolumità di un altro essere umano, e non un blocco di ferro da lavorare.

Locandina del film “Platoon” (1986): i soldati usano un linguaggio scurrile

Dunque, è normale, naturale che i chirurghi sfoghino il loro stress, la tensione dicendo parolacce. Lo aveva intuito già nel 1500, un celebre autore francese, François Rabelais, che era, tra l’altro, un medico oltre che un frate francescano. Nel romanzo romanzo “Gargantua e Pantagruele” fa dire a Panurgo, un chierico spiantato: «Ammetto che bestemmiare così faccia un gran bene alla milza, così come allo spaccalegna dà gran sollievo chi là vicino gli grida ogni colpo ad alta voce: Han!».

Ecco perché, oggi, l’orientamento della magistratura italiana è quello di non dare molto peso agli insulti che nascono in 4 circostanze in cui gli animi si scaldano facilmente per la tensione: allo stadio, alle riunioni di condominio, nelle assemblee politiche, nei diverbi stradali fra automobilisti (a cui ho dedicato un post).

Ma in questo elenco aggiungerei i soldati in guerra (non a caso, i film militari sono pieni di parolacce) e anche… i piloti di Formula 1: due anni fa il presidente della Fia, Mohammed Ben Sulayem aveva introdotto sanzioni pesantissime contro i piloti che usavano un linguaggio sboccato. Una pretesa assurda, come raccontavo in questo post: se qualcuno vi taglia la strada mentre andate in giro su una Panda, lo prendete a male parole. Figuriamoci quando siete a bordo di un bolide costato milioni di euro, e rischiate la vita sfrecciando a 300 km/orari. Tanto che Sulayem ha dovuto tornare sui propri passi, riducendo le sanzioni. Dunque, è ugualmente assurdo pretendere l’aplomb da chi sta lavorando con le sue mani su una persona che rischia di morire.

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