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Leopardi, genio senza peli sulla lingua

Nel fotomontaggio, il ritratto di Leopardi più somigliante al suo aspetto reale

A scuola viene descritto come un uomo solo, malato e depresso. In realtà era un pensatore coltissimo e raffinato, con un approccio laico e razionale verso la vita: un atteggiamento molto moderno per la sua epoca. E, nella vita privata, era un ribelle in cerca di affetto, autenticità ed emozioni. Un aspetto, quest’ultimo, che conosciamo soprattutto grazie alle centinaia di lettere che scrisse a parenti, amici e colleghi. Molte sono piene di parolacce anche forti: coglione, puttana, cazzo, fottere e via discorrendo. 

Proprio così: Giacomo Leopardi, l’autore de “L’infinito” e dello “Zibaldone” usava un linguaggio sboccato, colorito e cameratesco. Al Leopardi lirico, che abbiamo conosciuto sui banchi scolastici, si aggiunge così il Giacomo della vita di tutti i giorni, che si confida coi fratelli e gli amici più intimi usando un linguaggio aperto e senza filtri. Il linguaggio dei giovani e del parlato, pieno di iperboli ed espressioni scurrili. E, sorpresa, capace anche di uno sguardo ironico (a volte sarcastico) su se stesso e il mondo.
Le parolacce nelle lettere di Leopardi, censurate in passato dai critici letterari, sono tornate alla ribalta negli ultimi anni. Dunque, non sono una novità, ma finora non ne era stato fatto un censimento completo. Qui per la prima volta le identifico e le analizzo tutte: ne ho trovate 14 diverse, che si ripetono per 34 volte. Non molte, se si considera che Leopardi scrisse circa 900 lettere. Ma sono un campione significativo, perché permettono di conoscere il suo autentico modo d’esprimersi. E di mettere a nudo la sua anima, come nelle poesie: insomma, un intellettuale a tutto tondo, padrone del linguaggio alto come di quello basso.

Un talento precoce (anche nelle volgarità)

L’abitudine al turpiloquio fu, per Leopardi, precoce. Ecco che cosa scriveva a soli 12 anni in una scherzosa lettera alla marchesa Roberti, amica di famiglia, da Giacomo firmata come “La Befana” (era il 6 gennaio 1810):

«Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra conversazione, ma la neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la piscia nel vostro portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni, ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altr’anno gli porterò un po’ di merda». Colpisce lo stile (già) forbito nel quale fanno capolino le volgarità.

Carlo, fratello di Giacomo Leopardi

E l’abitudine al linguaggio scurrile si è mantenuta per tutta la vita. Con gli amici, e soprattutto con il fratello Carlo, il quale scrisse una volta a Giacomo: «Sai una cosa? Io sento molto la tua assenza anche in ciò, che non posso in tutto il giorno sfogarmi in un linguaggio un poco libero; non ho uno con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i cazzi, i per D. [ per Dio, ndr] etc.; sempre bisogna ritener le parole sulla bocca». 

Dunque, i due fratelli, quando parlavano fra loro, erano molto sboccati. E questo è un fatto inaspettato, se si considera che vivevano in un piccolo e bigotto paese, Recanati, controllato dallo Stato Pontificio. Infatti sono proprio le lettere a Carlo quelle che contengono il maggior numero di volgarità. Questo lessico familiare, tuttavia, a volte turbava la sorella Paolina (più piccola di 2 anni), tanto che nelle lettere rivolte a lei Giacomo si è premurato – solo con lei – di censurare le parolacce lasciandone solo l’iniziale allusiva: «i bravi uomini si distinguono dai c…ni [ coglioni, ndr ] nella circostanza» e corro qualche pericolo prossimo di mandarlo a far f. [ fottere, ndr], perché ho perduta una grandissima parte della mia antica pazienza. 

Il linguaggio della sincerità

Lettera con autografo di Leopardi.

Le lettere furono scritte da Giacomo Leopardi dal 1810 al 1837. Ovvero da quando aveva 12 anni fino ai 39 anni (morì giovane). Egli visse a Recanati fino al 1830, poi si trasferì a Firenze (con un breve soggiorno a Roma) fino al 1833, e poi a Napoli, dove morì quattro anni dopo. Le lettere sono indirizzate a circa un centinaio di persone: non solo i familiari (i fratelli Carlo e Luigi, la sorella Paolina), ma anche importanti esponenti della cultura dell’epoca. Qui ricordo i 4 con cui Giacomo ha usato un linguaggio scurrile, ovvero: Pietro Brighenti, avvocato, letterato e libraio di Bologna, noto per essere stato un confidente della polizia austriaca; Antonio Papadopoli, letterato e mecenate veneziano; Pietro Giordani, letterato e scrittore piacentino; e Francesco Puccinotti letterato, filosofo e medico marchigiano.
Per quali motivi Leopardi diceva parolacce nelle sue lettere? Ne ho individuati 5.

 1) ESPRIMERE I PROPRI SENTIMENTI CON SINCERITÀ E INTENSITÀ, METTENDO A NUDO LA PROPRIA ANIMA. «Io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch’io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto alla illuminazione, li ringrazio cordialmente; quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col crivello».  Dunque, Leopardi era consapevole d’esser sminuito dagli altri, che lo vedevano superficialmente come un inetto. Ma, pur soffrendone, rivendicava con orgoglio la propria diversità, anzi: la propria superiorità.

La grande biblioteca di casa Leopardi: qui Giacomo passava intere giornate a studiare.

In quella stessa lettera così intima Giacomo aggiunge la propria cruda autobiografia, essenziale e diretta: «Io ho rinunziato a tutti i piaceri de’ giovani. Dai 10 ai 21 anni io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio proprio travaglio. Il frutto delle mie fatiche è l’esser disprezzato in maniera straordinaria alla mia condizione, massimamente in un piccolo paese. Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anni, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire». E questa lettera, indirizzata a Pietro Brighenti è stata scritta nel 1820, a 21 anni d’età. 

Dunque, le parolacce sono pronunciate da Leopardi soprattutto per suggellare la confidenza con un amico, e per esprimersi in modo diretto e sincero. E’ questa la cifra fondamentale del suo linguaggio scurrile. 

2) LE PAROLACCE RIVELANO IL SUO CARATTERE INDIPENDENTE E RIBELLE:  Giacomo aveva un rapporto difficile con il padre Monaldo, dal quale cercava di emanciparsi. In una lettera, Giacomo racconta il proprio, personale modo di ribellarsi a lui, anche in campo sanitario. Dopo una malattia, racconta:«son guarito e sano come un pesce in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti, come volevano a ogni patto, ed essere stato in letto quanto m’è parso bene, che non la volevano in corpo». 

3) LE PAROLACCE ESPRIMONO LE SUE PASSIONI INTELLETTUALI. In una lettera Giacomo si sfoga con il fratello dicendo che «la filosofia, e tutto quello che tiene al genio, insomma la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo cogli stranieri: i quali non sapendo quasi niente d’italiano, non gusterebbero un cazzo le più belle produzioni che si mostrassero loro in questa lingua». Oppure: «Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi si affatica a pensare e a scrivere. Scrivere poi senza affaticarsi punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto, ma per me non fa, e non ci riesco». In questi passi, Leopardi ha sfogato la sua passione più viscerale per la letteratura e il disprezzo per quanti non scrivevano con cura e profondità.  Non manca anche un tratto autoironico: in alcune lettere definisce “coglionerie” i suoi scritti («l’articolo che ti ho mandato è una vera coglioneria»): Leopardi sapeva anche guardarsi con uno spiritoso distacco.

Palazzo Leopardi a Recanati. Qui visse Giacomo con la famiglia.

4) LEOPARDI INSULTAVA LE PERSONE CHE LO DELUDEVANO. Il suo linguaggio scurrile, scrive Fabio Magro in “L’epistolario di Giacomo Leopardi, lingua e stile” (Fabrizio Serra Editore, 2012) rivela il «pressante bisogno di scarto dalla propria condizione di solitudine, la costante ricerca di solidarietà umana, l’urgente necessità di instaurare una rete di rapporti affettivi che in qualche modo permettano di sostenere, con il conforto dell’amicizia se non con l’aiuto concreto, la desolante situazione di una difficile e concretamente precaria esistenza». Leopardi non era solitario per scelta: cercava con tutta la passione un interlocutore all’altezza. Che il più delle volte non trovava. E così diverse lettere mettono a nudo le profonde antipatie verso alcune persone che frequentava, descritte con insulti anche spietati: «Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile». O ancora: «Ho ben conosciuto quel fenomeno di Menicuccio Melchiorri, e pratico tutto giomo con quel coglione di Peppe (Melchiorri, ndr), che invita mezzo mondo a mettergli tre braccia di corna». Oppure: «Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai; e se non dico di lei tutto il male che posso». 

Teresa Carniani, uno degli amori non corrisposti di Leopardi

5) ESPRIMEVA PARTICOLARE LIVORE VERSO LE DONNE. Ecco cosa scrive al fratello da Roma: «Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete». Si sa che Leopardi non ebbe fortuna in campo amoroso: i suoi amori non furono corrisposti.
Spesso (era epoca di maschilismo) Leopardi insulta le donne a lui antipatiche con  un solo appellativo: “puttane”.  «La Magatti, quella famosa puttana di Caleagnini, esiliata a Firenze», oppure Teresa Carniani Malvezzi, gentildonna dilettante di letteratura, di cui si era innamorato a Bologna: «Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me». O, ancora, la moglie di Giuseppe Melchiorri, «una servaccia sciocchissima, bruttissima, goffissima, senza una grazia negli occhi o nel portamento o in alcuna parte della persona, senza una parola in bocca, insomma senza un attrait immaginabile al mondo; e tutto questo, essendo puttana, o se non altro, civetta. Io non conosco le puttane d’alto affare, ma quanto alle basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma».

 La lista (e i brani) delle parolacce 

L’epistolario di Leopardi con un suo ritratto funebre.

Dunque, quali sono le parolacce usate da Leopardi? Ho fatto una ricerca nell’”Epistolario” a cura di Emanuele Trevi, Newton Compton, 2014. 

Ho censito in tutto 14 espressioni, che ricorrono 34 volte: coglioni (11, di cui 1 censurata), puttana (4), porco (4), cazzo (3), fottere (3 di cui 1 censurata), merda (1), piscia (1), somaro (1), asino (1), culo (1), darla (1), befana (1), sciocca (1), bestia (1). 

Dunque, le espressioni più usate da Leopardi erano piuttosto pesanti, con una predilezione per l’espressione “coglioni”. Gran parte di queste parolacce sono usate come insulti (coglione, puttana, fottuti, porco, somaro, asino, befana, sciocca, bestia); nelle lettere, dunque, Leopardi diceva parolacce come modo per svilire altre persone che non stimava, sfogando così un moto di disprezzo e di rabbia. A volte venato di sarcasmo o di ironia

Il resto sono le espressioni colloquiali ed enfatiche, usate per colorire il discorso. Insieme a suffissi spregiativi (-accia) e superlativi assoluti, come nella frase: «Ho certe opere io nella porca bicoccaccia che non si sono potute trovare in tutta la nostra veneranda arcidottissima capitale». Un linguaggio molto colorato, come ci si aspetta da un poeta: Leopardi voleva far arrivare le sue emozioni a chi lo leggeva, e le parolacce sono proprio il linguaggio delle emozioni.

Ecco la lista completa delle volgarità di Leopardi. Ho riportato il brano, evidenziando a chi fosse rivolta la lettera e l’anno di composizione.

Espressione Brano Destinatario e anno
coglioni Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch’io del mondo e degli uomini non conosca altro che il colore, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano. Pietro Brighenti, 1820
Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terráqueo Pietro Brighenti, 1821
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile Carlo Leopardi, 1822
Ho ben conosciuto quel fenomeno di Menicuccio Melchiorri, e pratico tutto giomo con quel coglione di Peppe, che invita mezzo mondo a mettergli tre braccia di corna. Carlo Leopardi, 1822
Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno Carlo Leopardi, 1823
Ti mando uno degli articoli da me pubblicati qui. Ti parrà una coglioneria; pur sappi che questo ha fatto che il Ministro di Prussia desiderasse di conoscermi. Carlo Leopardi, 1823
l’articolo che ti ho mandato è una vera coglioneria, ma sebbene il metodo ch’io v’ho tenuto è appunto quello che s’usa da’ tedeschi, non perciò dovete credere che il Ministro, lodando l’articolo, abbia avuto o unicamente o principalmente in vista il metodo.  Carlo Leopardi, 1823
Ti spedisco oggi per la posta uno scudo, che vorrei che tu mi facessi grazia di mandare all’editore del giornaletto Teatri, arti e letteratura di costì, per un semestre di associazione a quel foglio (…). Paolina, che ama queste coglionerie, è causa ch’io ti dia questa briga. (…) 

Cardinali passò ultimamente di qua; e non mi vide, perché gli dissero ch’io non era visibile. Questi coglioni mi credono invisibile, perch’io non voglio vedergli animali loro pari

Piero Brighenti, 1827
Con questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi si affatica a pensare e a scrivere. Scrivere poi senza affaticarsi punto e senza pensare, va benissimo, e lo lodo molto, ma per me non fa, e non ci riesco. Antonio Papadopoli, 1828
 Sono stato ben lieto di udire la parte ch’egli ha avuta in fare che gli ultimi torbidi siano riusciti innocenti a cotesta città: i bravi uomini si distinguono dai c…ni nella circostanza. Paolina Leopardi, 1831
puttana per quanto pessima idea possiate aver della moglie (di Giuseppe Melchiorri, ndr), non è possibile che arriviate a concepire che razza di donna misera e nulla sia questa. Figuratevi una servaccia sciocchissima, bruttissima, goffissima, senza una grazia negli occhi o nel portamento o in alcuna parte della persona, senza una parola in bocca, insomma senza un attrait immaginabile al mondo; e tutto questo, essendo puttana, o se non altro, civetta. Io non conosco le puttane d’alto affare, ma quanto alle basse, vi giuro che la più brutta e gretta civettina di Recanati vale per tutte le migliori di Roma. Carlo Leopardi, 1822
La Magatti, quella famosa puttana di Caleagnini, esiliata a Firenze, ha 700 scudi di pensione dal governo, ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico. Carlo Leopardi, 1822
Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai; e se non dico di lei tutto il male che posso. Antonio Papadopoli, 1827
porco Della carestia di libri a Roma era bene informato. Ho certe opere io nella mia porca bicoccaccia che non si sono potute trovare in tutta la nostra veneranda arcidottissima capitale, avendocele fatte cercare.  Pietro Giordani, 1817
Sta’ poi sicuro che non ti fabbrica diademi, perch’ella è veramente del sistema de’ miei ospiti: uscire, vedere e tornare a casa: vita porca, della quale vorrebbero a parte anche me; s’io fossi uno stivale più largo e più lungo dell’Italia Carlo Leopardi, 1823
Scrivo vicino al fuoco che arde per dispetto in un caminaccio porco, fatto per scaldarmi appena le calcagna. Non mi dilungo di più perché la posta parte, e perché spero di abbracciarti (oh voglia Dio !) fra non molto. Carlo Leopardi, 1825
 Io, da più mesi, sono guarito affatto di quel male degl’intestini; se non toma. Ogni ora mi par mill’anni di fuggir via da questa porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che tutti son l’uno e l’altro. Francesco Puccinotti, 1827
cazzo Dovete però sapere che la filosofia, e tutto quello che tiene al genio, insomma la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo cogli stranieri: i quali non sapendo quasi niente d’italiano, non gusterebbero un cazzo le più belle produzioni che si mostrassero loro in questa lingua Carlo Leopardi, 1823
Non mi dir più che m’abbia cura, perché son guarito e sano come un pesce in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti, come volevano a ogni patto Carlo Leopardi, 1823
fottere Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, Carlo Leopardi, 1823
Già da più parti m’è arrivato all’orecchio che il Segretario di Stato m’ha offerto la mantelletta e ch’io l’ho ricusata, e altre tali ciarle fottute, sparse dal Zio Momo, bench’io l’avessi già scongiurato a non dir niente Carlo Leopardi, 1823
Ho visto lo zio Carlo, la buona Clotilde, e Ruggiero, che già spaccia protezioni, e mi promette favori con un tuono veramente originale; corro qualche pericolo prossimo di mandarlo a far f. (fottere, ndr), perché ho perduta una grandissima parte della mia antica pazienza.  Paolina Leopardi, 1831
merda vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda. Marchesa Roberti, 1810
piscia La neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Marchesa Roberti, 1810
culo Il mondo è fatto al rovescio come quei dannati di Dante che avevano il culo dinanzi ed il petto di dietro; e le lagrime strisciavano giù per lo fesso. E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo Pietro Brighenti, 1821
darla è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete. Carlo Leopardi, 1822
somaro Fra tanto state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e restateci finché non torno ghiotti, indiscreti, somari scrocconi dal primo fino all’ultimo. Marchesa Roberti, 1810
asino  Io, da più mesi, sono guarito affatto di quel male degl’intestini; se non toma. Ogni ora mi par mill’anni di fuggir via da questa porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti; so bene che tutti son l’uno e l’altro. Francesco Puccinotti, 1827
bestia è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come Carlo Leopardi, 1822
befana Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi Carlo Leopardi, 1822
sciocco Figuratevi una servaccia sciocchissima, bruttissima, goffissima, senza una grazia negli occhi o nel portamento o in alcuna parte della persona, senza una parola in bocca, insomma senza un attrait immaginabile al mondo Carlo Leopardi, 1822
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