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Camilleri e le 3.109 parolacce di Montalbano

Andrea Camilleri (6 settembre 1925 – 17 luglio 2019).

“Trenta picciotti di un paese vicino a Napoli avevano violentato una picciotta etiope, il paese li difendeva, la negra non solo era negra ma magari buttana”. Questo brano contiene solo 26 parole. Ma sono certo che tutti sapete chi le ha scritte: Andrea Camilleri ne “Il ladro di merendine”. L’autore dei gialli di Montalbano, infatti, si riconosce a prima vista grazie a due tratti inconfondibili: il dialetto siciliano e le parolacce, anzi: le “parolazze”. Ci avete fatto caso? Forse non molto, perché in Camilleri il turpiloquio è così integrato nello stile letterario da non destare sorpresa né scandalo.
Ma quanto sono frequenti le parolacce nei romanzi dello scrittore siciliano? Sono un orpello marginale o svolgono un ruolo importante? Da assiduo lettore di Camilleri, da siciliano e da studioso di turpiloquio, non potevo sottrarmi alla domanda. Così ho deciso di studiarle per celebrare il suo anniversario: oggi avrebbe compiuto 95 anni.

I protagonisti della serie tv su Montalbano.

Data la sua smisurata produzione letteraria, ho scelto di limitare lo studio ai soli romanzi del ciclo di Montalbano, escludendo i racconti brevi (“La paura di Montalbano”, “Un mese di Montalbano”, “Gli arancini di Montalbano”, “La prima indagine di Montalbano”): rimaneva comunque una quantità notevole di romanzi: 28, tutti editi da Sellerio, compreso “Riccardino”, uscito postumo quest’estate.
Così, “con santa pacienza” e “santiando” (imprecando) come avrebbe fatto il commissario alla vista di una pila di scartoffie da firmare sulla scrivania, mi sono messo all’opera. Glielo dovevo, dato che mi ha fatto trascorrere molte giornate di svago leggendo i suoi libri.
Prima di armarvi anche voi di pazienza per leggere i risultati (l’analisi è stata “longa e camurriusa”, cioè lunga e maledettamente complicata) vi anticipo un dato: nei suoi gialli, Camilleri ha usato 52 parolacce diverse, sia in siciliano che in italiano (e può darsi che me ne siano sfuggite altre), per 3.109 volte. Le espressioni volgari appaiono in media quasi una volta ogni 2 pagine. Dunque, il turpiloquio non svolge un ruolo marginale. Anzi, aiuta molto a capire la sua arte. Vedremo come e perché. Ma prima devo raccontarvi come ho ottenuto questi risultati.

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Il metodo della ricerca

Il primo romanzo di Montalbano. E’ quello con più parolacce.

Per studiare quale ruolo hanno le parolacce in un testo, bisogna contarle,  catalogarle e studiarle nel contesto. E per fare tutto questo, bisogna prima cercarle. Impresa non facile, se non si sa quali cercare. Così mi sono avvalso di 5 fonti:
il dizionario dei termini siciliani più usati da Camilleri, compilato dai fan di vigata.org;
il “Camisutra” ovvero l’antologia delle pagine più piccanti delle sue opere, sempre a cura di vigata.org;
il CamillerIndex, database con il glossario di Camilleri;
il mio libro sul turpiloquio;
il mio studio sulle parolacce più pronunciate in italiano.

Ma questa, ahimè, era solo la base, perché strada facendo, rileggendo tutte le sue opere, ne sono emersi diversi altri, e chissà quanti me ne saranno sfuggiti: stiamo parlando di 7.367 pagine in tutto. Un compito immane, alleggerito in parte dall’uso delle versioni ebook dei libri, usando la funzione “cerca”. Da questa scrematura sono emerse 52 espressioni che troverete più avanti. Ho censito ciascun termine in tutti i generi (maschile/femminile), numeri (singolare/plurale), tempi, modi e coniugazioni (per i verbi), e varianti (composti, accrescitivi, diminutivi, peggiorativi, rafforzativi). Sia in italiano che in siciliano. Ad esempio, per il verbo “fottere” ho censito tutte le persone, i tempi e i modi, sia in italiano che in siciliano (futtiri), con le innumerevoli varianti (catafottere, stracatafottere, sfottere).
Non ho conteggiato, invece, le espressioni non usate come insulti: “porco” l’ho calcolato solo quando era usato come offesa verso una persona, ma non per denotare un suino (o il piede di porco inteso come attrezzo da scasso); la parola “Madonna” l’ho conteggiata solo quando era usata come esclamazione (“Madonna!”, “Madunnuzza beddra!”) ma non come nome proprio (“ringraziamo la Madonna”). E così via.

 I risultati: una ogni 2 pagine (ma in calo nel tempo)

I risultati dello studio (clic per ingrandire)

Il censimento, come anticipato, ha dato questo risultato: nei 28 romanzi del ciclo di Montalbano sono presenti 52 parolacce, scritte per 3.109 volte. Su un totale di 7.367 pagine, è una media di 0,42 parolacce a pagina: quasi una ogni 2 pagine. Dato che, facendo una media approssimativa, ogni pagina contiene 200 parole, le volgarità sono lo 0,2% delle parole. La stessa frequenza che avevo riscontrato nella mia ricerca sul turpiloquio nell’italiano parlato. Non è un caso, e vedremo più avanti il perché.
Nel frattempo, però, bisogna segnalare un altro dato: nel corso della sua lunga produzione letteraria durata 25 anni (per la serie di Montalbano) la quantità di volgarità si è progressivamente dimezzata: è passata dal picco delle opere iniziali, che avevano una media di 0,59 parolacce per pagina negli anni ‘90, a 0,44 nel primo decennio degli anni 2000, per concludere con una media di 0,31 negli ultimi 10 anni. Tant’è vero che il libro con la maggior densità di parolacce è “La forma dell’acqua” (1994), con 0,77 parolacce a pagina, mentre quello con la minor densità di parolacce è “La giostra degli scambi” (2015), con 0,19 volgarità a pagina.
Come spiegare questo calo?

Le statistiche libro per libro (clic per ingrandire)

A volte, nella carriera di un autore, il turpiloquio è usato per fare clamore, attirare l’attenzione suscitando scandalo. Poi, una volta che si è affermato, questa esigenza viene meno, anche per rivolgersi a un pubblico più ampio e non incorrere in censure. E’ anche il caso del nostro autore? Improbabile, visto che parolacce anche forti appaiono in tutta la sua produzione: e ne basta anche una sola per fare clamore. Tra l’altro, le espressioni veramente pesanti (pompino, fica, sticchio, chiavare) appaiono pochissime volte: in generale, infatti, gli insulti pesanti sono una minoranza, solo uno su 4. Camilleri sapeva spendere il turpiloquio con equilibrio, solo quando era necessario alla narrazione. Non usava le scurrilità un tanto al chilo, insomma.
Forse, allora, potrebbe aver giocato un fatto anagrafico: quando iniziò a scrivere il primo romanzo della serie, Camilleri aveva già 69 anni; negli ultimi 10 anni della sua produzione aveva superato gli 85 anni d’età, e forse era meno incline alle passioni a tinte forti espresse dal turpiloquio. Può darsi, ma solo in parte. Basta leggere questo passo: 

“Va bene Maria, facciamo in questo modo e poi però prometti che te ne vai. Io ti faccio un regalo, anzi il mio cazzo ti fa un ultimo regalo”.
Ad un certo punto un sorriso ebete gli si disegnò sul volto. Pensavo che la medicina avesse fatto effetto, invece nulla. Solo quel sorriso cretino che continuava ad aleggiare sulle sue labbra. Ci crede che è stato quel sorriso, commissario, a farmi liberare da lui? Ho capito mentre lo guardavo che io lo odiavo, che lo detestavo, che io sì che sarei stata capace di ucciderlo, e allora d’impulso, senza pensarci, presi il tagliacarte che aveva sul comodino e glielo infilai nel cuore. Carmelo non si mosse, non cercò di fermarmi, continuò a sorridere e io a spingere il pugnale. Poi mi sentii libera. Finalmente libera. Lo lasciai sul letto.

Montalbano e le donne: una passione costante.

Questo brano è tratto da “Il metodo Catalanotti”, pubblicato nel 2018, l’anno prima di morire. Quando aveva 93 anni. Per chi non conosce la lucidità di Camilleri, potrebbe sorprendere che un uomo di quell’età sia stato capace di immaginare, e in modo così vivido, una situazione del genere: sesso e sangue. Ma non è l’unica, dato che c’è un’altra passione costante e altrettanto carnale dei suoi racconti: quella per la cucina. Le descrizioni delle scorpacciate luculliane del commissario fra arancini, frittura di pesce, pasta al nivuro di siccia (al nero di seppia) sono memorabili. Un aggettivo quanto mai pertinente, dato che, come Camilleri ha rivelato in un’intervista, parlare di cibo è “come fare penitenza, aspra e dolorosa per chi, come me, a lungo ha gustato i piaceri della buona tavola e ora non può più per l’età e per ferreo diktat medico. Ho preferito continuare a patire nel ricordo di certi sapori, nella memoria di certi odori”.
Camilleri era non solo un attento osservatore delle persone, ma anche delle sensazioni fisiche. E con grande capacità di memoria, evocativa e rievocativa. Dunque, se nel corso della sua lunga produzione ha dimezzato la quantità di termini scurrili, credo l’abbia fatto per una consapevole scelta artistica: li ha considerati meno adatte alle storie che voleva raccontare. E in particolare al protagonista che ha voluto rappresentare: col passare degli anni, infatti, il commissario Montalbano appare sempre più rassegnato alle ingiustizie sociali, agli abusi di potere, alle inteferenze della politica nelle sue indagini. E questa rassegnazione ha spento gradualmente la sua tenacia e la sua rabbia, rendendolo più sfiduciato che “‘ncazzato” e “nirbuso“. E quindi meno incline a sfogarsi con le parolacce

La top ten delle volgarità

E ora vediamo quali sono le 10 espressioni più frequenti, che da sole rappresentano quasi 3 espressioni su 4 (il 72,1%):

PAROLACCIA % SUL TOTALE
1) minchia 17,5
2) fottere/futtere 11,5
3) culo/culu 7,8
4) cabasisi 6,6
5) stronzo/strunzu 6,4
6) buttana / puttana 5,5
7) cazzo 5,0
8) camurria 4,8
9) cornutu /cornuto 3,6
10) sbirro 3,4
TOTALE 72,1%

Questa “top 10” rivela già molte cose. Innanzitutto, un doppio realismo: molti dei termini più usati, infatti, coincidono con i 10 maggiormente pronunciati dagli italiani (minchia, cazzo, culo, stronzo sono anche nella “top 10” delle parolacce più pronunciate dagli italiani). E le espressioni siciliane come minchia (quasi una parolaccia su 5: un’amata minchia, scassare la minchia, non capire una minchia, minchia di ragionamento…), fottere (usato più nel senso di “fregare” che in senso osceno, o anche come “rovinare” nell’espressione rafforzata “catafottere”), camurria (seccatura, da “gonorrea”), cornuto sono effettivamente le più usate dai siciliani: per una serie di romanzi ambientati in Trinacria, non poteva essere altrimenti. A questo scenario abbastanza prevedibile, però, si aggiungono due espressioni inaspettate: “cabasisi” e “sbirro”.

CABASISI E SBIRRI

Una pianta di zigolo, con in vista i tubercoli.

Il primo, “cabasisi”, è in realtà un eufemismo (di cui mi sono occupato in questo articolo): è cioè un termine non volgare che allude ai testicoli. Il nome deriva dalle parole arabe habb, bacca, e haziz, dolce: i dolcichini, cioè i tubercoli del cipero (o zigolo) dolce (Cyperus esculentus) la cui forma ricorda per l’appunto le gonadi maschili. E’ una parola dotta, che in realtà non è popolare fra i siciliani: probabilmente Camilleri l’ha preferita al termine dialettale “cugghiuna” (coglioni) che è un’espressione molto pesante. Camilleri l’ha usata in tutto e per tutto come sostituto di “palle” nelle espressioni “levarsi dai cabasisi”, “rompere/scassare i cabasisi”, “firriamento (giramento) di cabasisi”, “stare supra ai cabasisi” (stare sulle palle). Tant’è vero che le espressioni corrispondenti in italiano sono una minoranza: “palle” è presente solo 11 volte (0,4%), e “coglione” 43 volte (1,4%) ma il termine è usato anche come insulto (“coglione” e “rincoglionito”). Oggi, però, proprio grazie al successo di Camilleri (oltre 100 libri e 25 milioni di copie vendute solo in Italia) “cabasisi” è diventato popolare non solo in Sicilia ma in tutta Italia.

Montalbano e Fazio, sbirri con “teste fine”.

Ancor più particolare l’uso intensivo della parola “sbirro”. Il motivo? Non solo perché i romanzi di Camilleri sono polizieschi, che hanno per protagonista un commissario, Salvo Montalbano.  La parola è uno spregiativo: deriva da birrus (rosso, colore delle divise medievali) indica i servi violenti e ciechi del potere. Ma, in Sicilia, l’appellativo ha anche il significato di spia, delatore, furbo: nel 1800 sotto i Borboni, infatti, il funzionario di polizia Salvatore Maniscalco, palermitano, per garantire l’ordine pubblico organizzò un’efficiente rete di spie e di informatori reclutandoli anche fra i criminali. Ma nella maggior parte delle pagine, questo termine non è usato dai criminali e in senso spregiativo, bensì dallo stesso Montalbano e per lo più in senso positivo, come complimento o con compiaciuto orgoglio: “Fazio era un bravissimo sbirro e ’na gran bella testa fina” (“Il cuoco dell’Alcyon”). Infatti “sbirro” è per lo più presente in espressioni come “istinto di sbirro, doveri di sbirro, testa di sbirro, bravo sbirro”. Insomma, lo sbirro è chi serve lo Stato al servizio della giustizia, usando l’intelligenza. Un “insulto di solidarietà”, come quando le persone di colore chiamano se stessi “negri” ribadendo la propria identità fregandosene del disprezzo degli altri.
Ecco due passi che mostrano questo uso: “
in questo consisteva il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro nato: cogliere, a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio macari (pure) impercettibile che non quatrava con l’insieme, lo sfaglio (differenza) minimo rispetto all’ordine consueto e prevedibile» (“Un mese con Montalbano”). Montalbano,infatti, era uno sbirro anomalo nel carattere e nel modo di fare: era umorale e istintivo, agiva sempre di testa propria. E spesso fuori dagli schemi e dalle procedure, anche organizzando messe in scena per tendere trappole (sfunnapedi) ai sospettati, per farli cadere in contraddizione: “Fare tiatro a Montalbano l’addivirtiva. Come a tutti i veri sbirri. Essiri tragediaturi era forse condizioni ‘ndispensabili per ogni ‘nvistigatori di rispetto. Sulo che abbisognava essere abbili assà (“Riccardino”). 

Sette tipi di parolacce

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Sappiamo dunque quali sono le parolacce più usate nei romanzi di Camilleri (potete vedere il file completo qui). Ma in quali modi sono usate? Un modo per capirlo è classificarle per tipologia. Le ho riunite in 7 grandi famiglie: insulti pesanti e maledizioni; espressioni enfatiche e colloquiali; espressioni scatologiche (cioè escrementizie), insulti leggeri; oscenità (termini sessuali diretti), profanità (termini religiosi usati come imprecazioni) ed eufemismi.
Ecco i risultati, riassunti nel grafico a torta qui a fianco.

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1) Enfasi
 PAROLACCE Citazioni % sul tot
minchia 545 17,5
fottere / futtere / catafottere / sfottere 357 11,5
culo /culu  /inculare / leccaculo /acculare / rinculo 242 7,8
cazzo / cazzuto / cazzate / incazzare 155 5,0
camurria 148 4,8
sbirro 107 3,4
burdellu / bordello 57 1,8
casino / casinu 49 1,6
cesso 20 0,6
vastaso (cafone) 17 0,5
palle / balle 11 0,4
fissa / fissaria /fesso / fesseria 43 1,4
TOTALE 1751 56,4

In questa categoria, come si può notare, ho inserito diversi termini di origine sessuale (cazzo, minchia, fottere, palle…) per un motivo preciso: queste espressioni, infatti, sono usate nella maggior parte dei casi come rafforzativi espressivi e non come termini osceni. Facciamo qualche esempio: «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto» disse Fazio (“Il sorriso di Angelica”).
Oppure: «Buongiorno, dottor Montalbano. Mi scuso per averla fatta viniri fino a qua e mi scuso di cchiù per averla fatta ‘nfaccialare, ma è bene che lei non sappia chi sono».
«Facciamola finita con ‘sti complimenti del cazzo» fici il commissario. «E mi dica quello che mi deve dire». (“La danza del gabbiano”).
Dunque, le espressioni colorite e colloquiali sono quelle col maggior peso (una su due, il 56,4%) nell’opera di Camilleri. E non è un caso, come vedremo più avanti. 

2) Insulti pesanti e maledizioni
 PAROLACCE citazioni % sul tot
stronzo/strunzu 198 6,4
Buttana / puttana / sputtanare 172 5,5
cornutu, curnutu /cornuto / crastu 113 3,6
porco / porcu 44 1,4
coglione /rincoglionito 43 1,4
fitusu (schifoso) 43 1,4
garruso (frocio) 34 1,1
troia 27 0,9
vaffanculo / affanculo / fanculo 16 0,5
bastardo 15 0,5
negro 6 0,2
cajorda (sozza, puttana) 3 0,1
frocio 1 0,0
zoccola 1 0,0
TOTALE 716 23,1

E’ la seconda categoria più numerosa (un caso su 4, il 23,1%). Gli insulti, infatti, servono a narrare i litigi o in generale le forti emozioni. Ecco un esempio tratto da “La luna di carta”: Ogni automobilista, appena arrinisciva a sorpassarlo, si sintiva in doviri di definirlo: garruso, secondo un camionista; stronzo, secondo un parrino; cornuto, secondo una gentile signora; be…be… be, secondo uno che era balbuziente; ma tutte quelle offise a Montalbano da una grecchia ci trasivano e dall’àutra ci niscivano. Solo una lo fece veramente arraggiare. Un tale, un sissantino distinto, l’affiancò e gli disse: “Asino!”. Asino? Ma come si pirmittiva?. Tra l’altro, questo brano è prezioso rispecchia una profonda convinzione di Camilleri: per quanto “asino” sia considerato in genere un insulto moderato, per lui invece, da uomo di cultura, rappresenta un’offesa pesante: perché significa persona incolta, ignorante.
Difficile, comunque, tracciare un confine netto fra insulti ed esclamazioni pepate: la parola buttana/puttana, la sesta più usata da Camilleri, è spesso usata come imprecazione: «Mi sembri così strano stamattina! Ti senti bene?», disse Livia. «Benissimo, mi sento! Da Dio! Buttanazza della miseriazza buttana e figlia di buttanazza porca e futtuta, quantu mi sentu beni! Benissimo mi sento!». «Non parlare in dialetto e non dire parolac…». «Parlo come mi pare, va bene?». (“La danza del gabbiano”). 

3) Eufemismi
  
 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cabasisi/ scassacabasisi 204 6,6
caspita 3 0,1
pisello 2 0,1
TOTALE 206 6,7

Non amando i giri di parole, Camilleri ha fatto poco ricorso agli eufemismi, i dribbling linguistici. Ne ho trovati solo due, che però arricchiscono comunque la tavolozza espressiva dei racconti. Come questo memorabile sfogo (uno dei tanti) dello scontroso dottor Pasquano, il medico legale: «Guardi che stamatina ho i cabasisi che mi fumano» fu la cortese avvertenza iniziale del dottore. Montalbano non s’impressionò e arrispunnì a tono. Pasquano addivintava trattabile sulo se uno sapiva tenergli testa. «E i miei lo sa a cosa assimigliano ? Pricisi ‘ntifici a ‘na locomotiva a vapore». «Che càspita vuole?». Aviva ditto càspita. Non cazzo, non minchia. Il che viniva a significari che era veramenti arraggiato. (“Le ali della sfinge”).
Oppure questo brano tratto da “Un covo di vipere”. «Ma macari mentri uno sinni sta a la sò casa a mangiare lei deve viniri a polverizzarigli i cabasisi?! Ma lo sa che lei non è un essere umano ma un robot tritacoglioni? Lo sa qual è la mia più alta aspirazione? Farle l’autopsia!».
«Dottore, mi scusi, ma…».
«Non la scuso! Anzi, la maledico per l’eternità! Che minchia d’una minchia vuole?».

4) Scatologia
 
 PAROLACCE Citazioni % sul totale
merda 55 1,8
cacare /cacarsi 39 1,3
piscia / pisciazza 32 1,0
pìrita 12 0,4
cacca 8 0,3
TOTALE 146 4,7

I termini volgari di significato escrementizio sono pochi. E sono usati più nei modi di dire (“era un omo di merda”, “siamo nella merda fino al collo”, “mi tratti come una merda”) che in senso letterale (“come mosche sulla merda”, “sono annati a ficcare nella discarrica perché nella merda pirchì ‘n mezzo alla merda godivano di più”). Il termine piscia, invece, è usato in senso letterale (“Scusami, ma devo andare a pisciare”, “si lavò con un’acqua accussì càvuda che gli parse pisciazza”).

5) Insulti leggeri
 
 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cretino 86 2,8
imbecille 36 1,2
asino/sceccu 3 0,1
TOTALE 125 4,0

Gli insulti leggeri hanno quasi lo stesso peso (in termini di frequenza) degli eufemismi. Anch’essi contribuiscono ad arricchire la tavolozza espressiva. Come in questo brano: Pellegrino è un cretino che si crede sperto (furbo, ndr), mentre sempre cretino resta”. Oppure: Lui s’addivirtiva a fare il cretino totale col Questore, il problema era che il Questore lo cridiva veramente un cretino totale (“La pazienza del ragno”).

6) Profanità
 
 PAROLACCE Citazioni % sul totale
Gesù 39 1,3
Madonna / Madunnuzza 34 1,1
Cristo 20 0,6
TOTALE 93 3,0

Le profanità sono i termini religiosi usati in senso profano, ovvero come esclamazioni. Conoscendo bene la sensibilità religiosa degli italiani e soprattutto dei siciliani, Camilleri sapeva di muoversi in un campo minato. E infatti non ha mai ecceduto sia per quantità che per qualità (nei suoi libri non ci sono bestemmie). Si è limitato a un uso marginale e colloquiale. Come in queste battute:  «Non lo sa? Sono scomparsi». «O Madunnuzza santa! Che viene a dire scomparsi?» (“La gita a Tindari”). Oppure: «Non sto facendo nulla di pericoloso». «Non ci credo». «Ma perché, Cristo santo?». (“Il cane di terracotta”).

7) Oscenità
  
 PAROLACCE Citazioni % sul totale
scopare 17 0,5
ficcare / ficcata 16 0,5
minne 16 0,5
fica 4 0,1
minata / minarisilla 3 0,1
uccello 3 0,1
chiavare 2 0,1
pompino 2 0,1
sega / segaiolo 2 0,1
tette 2 0,1
sticchio 1 0,0
suca 1 0,0
TOTALE 69 2,2

Ancor più rari i termini osceni usati in senso letterale, cioè sessuale. In alcuni brani è stato inevitabile, non solo per per descrivere alcuni delitti a sfondo sessuale, ma anche per raccontare scene passionali o modi di dire pesantemente scandalosi. Come questo botta e risposta fra Montalbano e Gegè Gullotta, ex compagno delle elementari nonché organizzatore di un bordello all’aperto: «Pronto? Pronto? Montalbano? Salvuzzo! Io sono, Gegè sono». «L’avevo capito, càlmati. Come stai, occhiuzzi di miele e zàgara?». «Bene sto». «Hai travagliato di bocca in queste iurnate? Ti perfezioni sempre di più nel pompino?». «Salvù, non metterti a garrusiare (scherzare, ndr) al solito tuo. Io semmai, e tu lo sai, non travaglio ma faccio travagliare di bocca». «Ma tu non sei il maestro? Non sei tu che insegni alle tue variopinte buttane come devono mettere le labbra, quanto dev’essere forte la sucatina?». «Salvù, magari se fosse come dici tu, sarebbero loro a darmi lezione. A dieci anni arrivano imparate, a quindici sono tutte maestre d’opera fina». (“Il cane di terracotta”)

NOMI RIVELATORI

In questa categoria di volgarità sessuali andrebbe inserita anche la scelta del cognome del vice di Montalbano, Mimì Augello: un cognome rivelatore (nomen-omen), dato che Augello (uccello) era un Don Giovanni. Così come l’ingenuo Agatino Catarella è un naif puro (dal greco agathòs, buono, è kàtharos, puro).

Le 4 radici letterarie di Montalbano

Camilleri con Vàzquez Montalbàn.

Per comprendere le ragioni per cui Camilleri ha inserito il turpiloquio nei suoi libri, occorre inquadrare la sua produzione identificando il filone letterario a cui attinge. Non basta dire che è il “giallo”: perché i suoi polizieschi sono molto particolari, perché sono la sintesi di numerosi riferimenti letterari.
Innanzitutto i polizieschi di Leonardo Sciascia, per l’ambientazione in Sicilia e gli intrighi di mafia e corruzione (oltre che per l’affermazione che “il giallo è un genere per eccellenza trasparente, la forma letteraria più onesta”); per quanto riguarda il linguaggio, Sciascia è un autore con uno stile “alto” seppure non privo di parole volgari, ma attribuiti per lo più a criminali, come il mafioso Mariano nel “Giorno della civetta”: (l’umanità)
la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”.
Nello stesso filone, Camilleri ha come modello anche Georges Simenon, di cui sceneggiò in tv il commissario Maigret: e come Maigret Montalbano è istintivo, umorale e applica una sua personale giustizia ai casi.
Il terzo modello è ovviamente
Manuel Vázquez Montalbán: il suo investigatore Pepe Carvalho aveva, oltre alla passione per la cucina, un linguaggio sboccato almeno tanto quanto il commissario Montalbano (il cui nome è appunto un omaggio all’autore spagnolo). Nei gialli di Carvalho, tra l’altro, non mancano le riflessioni sociali e politiche dell’autore, e anche questo è un elemento in comune con Camilleri.
Non mancano le influenze (più marginali nei gialli) di Luigi Pirandello, soprattutto per i dialoghi interiori del commissario e per il contrasto fra realtà e apparenza.
Ma nessun influsso linguistico, che invece arriva, e molto, da Carlo Emilio Gadda: oltre ad aver scritto un celebre poliziesco (“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) ha usato il dialetto, introducendo anche vari termini inventati di sana pianta (anche se inseriti in tutt’altro contesto, grottesco e multistilistico). 

UN SICILIANO REINVENTATO

Catarella, macchietta da opera dei pupi.

Ed è soprattutto nell’uso dei termini dialettali che si collocano le radici di Camilleri: nella mia analisi ne ho riscontrati 26 su 52 (la metà esatta) di cui 15 sono usati esclusivamente in siciliano, altri anche con il corrispettivo italiano (che prevale nella gran parte dei casi, tranne per i termine “buttana”). Come ha osservato lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, il siciliano di Camilleri è anche in molti casi siciliano “reinventato, una sorta di gramelot”, cioè un linguaggio a volte senza senso letterale ma usato come strumento espressivo. Basti pensare  a termini come facchisi (fax), uozap (Whatsapp), “Gli occhi gli facevano pupi pupi”, e al celebre “pirsonalmente di pirsona” dell’agente Agatino Catarella. Buttafuoco osserva che questo gramelot è “a uso di messa in scena, come nell’opera dei pupi”: osservazione acuta, dato che spesso Camilleri inventa scene comiche molto corporee, che vedono spesso come protagonista proprio Catarella che costantemente storpia i cognomi delle persone che chiamano al centralino della polizia: Peritore che diventa “Piritone” (grosso peto), Cavazzone che diventa Cacazzone e così via.
Camilleri, infatti, usa spesso alcuni “tormentoni”, cioè situazioni ricorrenti, anche attraverso l’uso di espressioni volgari: la più celebre è “la facci a culu di gaddrina di Pippo Ragonese, il commentatore televisivo che “era sempri dalle parti di chi cumannava”. Oppure “quella grannissima camurria del dottor Lattes”, l’untuoso capo di gabinetto del questore Bonetti-Alderighi.

Le 5 esigenze narrative

Ma al di là di questi riferimenti letterari, l’uso delle parolacce risponde a precise esigenze narrative di Camilleri. Ne ho identificate 5:

Duello verbale col dottor Pasquano, medico legale.

REALISMO: voleva rappresentare fedelmente l’ambientazione siciliana colloquiale, la naturalezza del parlato quotidiano. Camilleri, da abile regista televisivo e teatrale, era un maestro non solo nelle trame ricche di colpi di scena che tengono avvinto alle pagine il lettore, ma anche nei dialoghi. Sempre ritmati, verosimili, efficaci: «Quindi zoppichiava?» (chiese Montalbano). «Non è detto» (rispose Pasquano) «Ha altro da dirmi?». «Sì». «Me lo dica». «Si levi dalle palle». (“La danza del gabbiano”).
Ecco come lo stesso Camilleri racconta la cura con cui si dedicava a ottenere il realismo della lingua parlata: «Scrivo una pagina, la correggo, la rifaccio, a un certo punto la considero definitiva. In quel momento me la leggo a voce alta. Chiudo bene la porta, per evitare di essere ritenuto pazzo, e me la rileggo, ma non una volta sola: due volte, tre. Cerco di sentire – e in questo la lunga esperienza di regista teatrale evidentemente mi aiuta – soprattutto il ritmo». E in questa ricerca di realismo, il siciliano è uno strumento essenziale: non solo perché i suoi gialli sono ambientati in Sicilia, ma soprattutto perché per lui il dialetto è la lingua più immediata, viva, spontanea, senza filtro: «La parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la lingua, di quella stessa cosa, esprime il concetto». In pratica, il dialetto esprime l’essenza delle cose, la loro natura profonda senza le sovrastrutture artificiali della cultura. L’italiano, invece, è la lingua dell’astrazione, dei temi generali, ma anche della distanza dai sentimenti e dalla spontaneità.

AMBIENTAZIONE: i suoi gialli raccontano il mondo delle caserme e dei criminali. Sia nel loro gergo, che nella crudezza di alcune ambientazioni violente. «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto. Macari pirchì sei recidivo, hai due precedenti sempri per ricettazione» disse Fazio. (“Il sorriso di Angelica”).

Montalbano: un commissario umorale e passionale.

CARATTERI DEI PERSONAGGI: molti di loro sono umorali. Non solo Montalbano, ma anche la fidanzata Livia, il vice Augello, il dottor Pasquano. E il turpiloquio rappresenta fedelmente il loro nirbuso. Le parolacce sono il linguaggio delle emozioni, rappresentate in tutta la loro ricchezza: rabbia, sorpresa, frustrazione, disgusto, paura, irritazione… «Mimì, mi hai rotto i cabasisi. Dimmi subito che minchia ti capita». (La gita a Tindari) Oppure: «Lo vedi? Lo vedi?» scattò il commissario. «E dire che avevi promesso! E te ne vieni fora con una domanda a cazzo di cane! Certo che è morta, se dico aveva e viveva!». Augello non fiatò. (“La gita a Tindari”)

EROTISMO: è un tema di fondo, giocato sia nella passione carnale (le donne piacciono anche a Montalbano, non solo ad Augello), sia a volte nei delitti e nelle violenze sessuali. I termini osceni sono usati o per esprimere e indurre eccitazione, oppure per rappresentare lo squallore della violenza. “le coppie non mercenarie e cioè amanti, adùlteri, ziti, se ne andavano dal posto, smontavano («in tutti i sensi» pensò Montalbano) per lasciare largo al gregge di Gegè, buttane bionde dell’est, travestiti bulgari, nigeriane come l’ebano, viados brasiliani, marchettari marocchini e via processionando, una vera e propria Onu della minchia, del culo e della fica” (“Il cane di terracotta”).

UMORISMO: a volte servono ad allentare la tensione, spezzare il ritmo con siparietti o battute comiche. “Quando niscì da casa pronto per la partenza, c’era Gallo, l’autista ufficiale del commissariato, che gongolava. «Taliasse ccà, dottore! Guardi le tracce! Che manovra! Ho fatto firriàre la macchina su se stessa!».
«Complimenti» fece cupo Montalbano.
«Metto la sirena?» spiò Gallo nel momento che partivano.
«Sì, nel culo» rispose Montalbano tòrvolo. E chiuse gli occhi, non aveva gana di parlare. ( “La voce del violino”)

Insomma, Camilleri è come un pianista capace di passare dal jazz al rock, dal liscio alla disco music. Aveva, insomma, grande padronanza espressiva dei più diversi registri linguistici: una consapevolezza che non può prescindere dalle parolacce, come ricorda questo brano tratto da “La pensione Eva” (non appartenente al ciclo di Montalbano): «Aveva imparato che la Pensione Eva si poteva chiamare casino oppure burdellu e che le fìmmine che ci stavano dintra e che si potivano affittare erano nominate buttane. Ma burdellu e buttane erano parolazze che un picciliddru perbene non doveva dire».  Ecco perché chi lo ha conosciuto da vicino racconta che, nei momenti di rabbia (che anche a lui non mancavano, come a tutti) Camilleri si sfogava anche dicendo parolacce, che sono il linguaggio delle emozioni forti e della sincerità: e, ne siamo certi, lo faceva usando l’improperio giusto al momento giusto, con pertinenza e senso delle proporzioni. In tutte le sfumature linguistiche, dalla più aulica alla più greve.
Dunque, se qualcuno affermesse che nei gialli di Camilleri le parolacce svolgono un ruolo marginale, direbbe “una sullenne minchiata”.

Se vi è piaciuto questo post, potrebbero interessarvi anche le mie analisi linguistiche sui testi di Leonardo da Vinci e sulle parolacce nelle canzoni : ho studiato tutte quelle scritte da Fabrizio De Andrè, Elio e le storie tese, Pino Daniele, Lucio Dalla, Franco Califano, Enzo Jannacci.

Dedico questo articolo al mio amatissimo papà, Giovanni Tartamella, scomparso lo scorso 25 settembre.
Sei stato immenso, come il vuoto che sento. 

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One Comment

  1. Molto interessante!!!
    Abbiamo scelto Camilleri con il mio gruppo per un lavoro d’italiano, che continuo ad imparare, e ho trovato questo articulo insomma l’ho usato per la mia parte del lavoro.
    Tante grazie
    Sono argentina e vivo a Bs As

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