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Abbiamo diritto di insultare il presidente?

Foto(9)Il telefono dell’avvocato Alessandro Micucci squilla in continuazione. Lo chiamano da tutta Italia perché è riuscito a far assolvere una donna di Rovigo che, su Facebook, aveva definito “testa di c***o” il presidente Giorgio Napolitano. L’avvocato è stato il primo, e forse l’unico in Italia ad accorgersi che, secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo, abbiamo diritto di criticare, anche aspramente, i politici: tanto che i giudici di Strasburgo hanno assolto un francese che aveva dato del “coglione” (con, in francese) all’allora presidente Nicholas Sarkozy. Per i giudici europei, infatti, il vilipendio al Capo dello Stato è un reato che non ha ragion d’essere nelle democrazie moderne: occorre garantire l’uguaglianza e la libertà d’espressione dei cittadini, anche nei confronti della più alta carica dello Stato. E il Tribunale di Rovigo è d’accordo.

Di questo cambio di prospettiva, però, non sembrano essersi accorti i nostri politici. Proprio in questi giorni, infatti, alla commissione Giustizia del Senato si sta discutendo una proposta di legge per abolire il reato di vilipendio, ma questa non tiene conto né della sentenza europea, né di quella di Rovigo. Oltre che dai princìpi democratici, i senatori sono motivati dalla volontà di salvare alcuni colleghi politici che rischiano da 1 a 5 anni di carcere per aver offeso Napolitano: Umberto Bossi (Lega), Francesco Storace (La Destra) e Giorgio Sorial (M5S). Non a caso, la proposta in discussione al Senato è stata presentata dai senatori Lello Ciampolillo (M5S) e Maurizio Gasparri (Forza Italia): destra e M5S spingono per l’abolizione del reato di vilipendio, mentre il Pd pare più intenzionato a mitigarne le pene. La proposta, però, è bloccata in attesa del parere della Commissione affari costituzionali; nel frattempo, il 21 novembre Storace è stato condannato  a 6 mesi di reclusione (pena sospesa).
Ma perché una sentenza che potrebbe “fare giurisprudenza” è passata inosservata sui grandi giornali italiani? Forse perché è stata emessa da un Tribunale di provincia? La notizia circola per lo più nei blog e su Facebook, come se fosse una leggenda metropolitana o un caso bizzarro. Ho indagato e posso dire che non lo è: anzi, solleva riflessioni di grande attualità.

Ma prima di parlare della storica assoluzione del Tribunale di Rovigo, bisogna ricordare in che consiste il reato di vilipendio, descritto dall’articolo 278 del Codice Penale: “Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”. Sembra una norma semplice, ma in realtà – come spiega il Trattato di diritto penale (vol. I, delitti contro la personalità dello Stato, Utet) ha una potenza pervasiva senza limiti: è vietato insultare il Capo dello Stato come persona, ma anche come per i suoi atti politici. Non lo si può offendere neppure per quello che ha fatto prima che diventasse presidente. E non si possono neppure distruggere o rovinare le foto o le statue che lo ritraggano, o disegnare vignette offensive. Lo si può criticare per il suo operato, ma solo se non si usano espressioni ingiuriose, che minino il suo prestigio, lo mettano in ridicolo o lo facciano apparire inidoneo a rivestire la carica. Insomma, il presidente della Repubblica è di fatto intoccabile da ogni punto di vista. Perché?

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Dopo essere stata denunciata per vilipendio, la comica Sabina Guzzanti ha intitolato così il suo tour del 2009.

Beppe Grillo – dopo che 22 simpatizzanti del suo movimento sono finiti indagati per vilipendio – ha scritto tempo fa che questo reato è un retaggio del fascismo: in effetti, come raccontavo qui, circa 5mila italiani furono denunciati per il semplice fatto di aver imprecato o fatto battute contro Mussolini. Le dittature mal sopportano di essere messe in discussione e tanto meno in ridicolo.
Ma in realtà le radici del vilipendio sono molto più antiche: il Codice Toscano del 1853, rimasto in vigore anche dopo l’Unità d’Italia, all’art. 109 prevedeva che “chiunque fa offesa alla riverenza dovuta al Granduca, è punito con la carcere”. E ancora più esplicito l’art. 471 del Codice sardo-italiano del 1859 (che 30 anni dopo fu inglobato nel Codice penale italiano): ogni pubblico discorso che ecciti lo sprezzo e il malcontento contro la Sacra Persona del Re sarà punito col carcere. Qui sta il punto: il vilipendio non è altro che il delitto di lesa maestà applicato però al presidente della Repubblica.
E anche al papa, se le offese a lui dirette si consumano sul suolo italiano e davanti al pubblico, come ha scoperto a proprie spese Sabina Guzzanti. Che finì indagata per vilipendio al papa quando nel 2008, contestando le ingerenze politiche del Vaticano, disse che “fra 20 anni Ratzinger sarà morto e starà dove deve stare: all’inferno, tormentato da  diavoloni frocioni attivissimi”. Non se ne fece nulla perché l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, decise di non procedere contro di lei. L’apertura di un processo per vilipendio, infatti, deve essere autorizzata dal ministro della Giustizia, anzi: è più appropriato chiamarlo Guardasigilli, visto che parliamo di lesa maestà. Nel corso del 2013, il ministero ha esaminato 18 casi di vilipendio.

Ma qui iniziano i problemi: l’intoccabilità del presidente come si concilia con i princìpi democratici dell’uguaglianza e della libertà d’espressione? Se siamo tutti uguali e liberi di esprimerci, perché se critico il presidente io rischio la galera e se lo fa lui no?
La norma sembra contrastare con le garanzie democratiche della Costituzione: eppure la Corte Costituzionale – che si è già pronunciata in merito – l’ha difesa più volte. Nel 1969 e nel 1978 la Corte ha stabilito che il vilipendio non contraddice l’uguaglianza dei cittadini. Il presidente della Repubblica, ha stabilito la Corte, gode di tutele speciali non perché la sua persona abbia un valore superiore a quello degli altri, bensì perché egli incarna l’istituzione repubblicana: un bene di “eccezionale rilevanza” che va difeso sopra ogni cosa. Dunque, il nostro ordinamento, pur di difendere se stesso, accetta che l’onore non sia uguale per tutti: chi rappresenta lo Stato vale di più. Tant’è vero che chi offende il presidente (o anche un pubblico ufficiale, vedi il reato di oltraggio) è punito più severamente rispetto a chi offende un “semplice” cittadino.
Nel 1996, poi, la Corte ha stabilito anche che le pene previste per il reato di vilipendio non sono eccessive: anzi, sono giustificate perché “scolpiscono (…) il particolare disvalore che assume per l’intera collettività l’offesa all’onore e al prestigio della più alta magistratura dello Stato”.
Infine, nel 2004, la Corte di Cassazione ha pure aggiunto che la difesa della figura del presidente da qualunque forma di critica che lo possa far apparire inadatto a rivestire la carica, si giustifica non solo come principio astratto, ma anche per garantire il sereno svolgimento delle funzioni presidenziali.

Ma è proprio questo il punto che è stato scardinato dalle leggi europee. In particolare dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu): “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Un principio non nuovo: la Convenzione risale al 1950 ed è stata accolta dall’Italia nel 1955. E allora perché proprio oggi rischia di scardinare il reato di vilipendio?

Perché l’anno scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha assolto, in base a questa legge, un attivista francese, Hervé Eon: nel 2008, in occasione di una visita del presidente Nicholas Sarkozy a Laval, Eon aveva brandito un cartello con la scritta “Casse toi pov’con”, ovvero: “Sparisci, povero coglione”. Eon aveva utilizzato una frase detta dallo stesso Sarkozy, in quello stesso anno, a un agricoltore. Questi aveva rifiutato la stretta di mano di Sarkozy (“Non mi toccare, mi sporchi”) e il presidente aveva replicato: “Eh bien casse-toi alors, pauv’con” (Ah beh, allora sparisci, povero coglione).

La reazione di Sarkozy aveva suscitato grandissima indignazione in Francia: il presidente era stato contestato non solo per l’aggressione a un comune cittadino, ma anche per la sua incapacità di mantenere, persino nelle occasioni ufficiali, un contegno idoneo alla sua carica. Tanto che molti avevano riutilizzato quella frase contro lo stesso Sarkozy. Un caso clamoroso. Eppure, proprio per quella frase il signor Eon era stato denunciato e poi condannato in due gradi di giudizio, seppure alla mite pena di 30 euro di ammenda. Così si è rivolto alla Corte europea per i diritti dell’uomo.
La Corte lo ha assolto, considerando quell’insulto come una critica politica fatta con il linguaggio della satira. Secondo la Corte, anche i termini forti devono essere tollerati dai politici: quando si entra in politica, ci si espone inevitabilmente e consapevolmente a un attento controllo del proprio operato dai parte dei cittadini. Dunque, il diritto di criticare un politico prevale sulla difesa della sua onorabilità, perché altrimenti si limiterebbe la libertà di critica dei cittadini, ovvero la stessa democrazia.

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L’articolo uscito su “La voce di Rovigo” a firma di Ketty Areddia.

Questi princìpi sono applicabili in Italia? Sì, secondo il giudice Pietro Mondaini di Rovigo, autore della sentenza di assoluzione che parolacce.org pubblica in esclusiva qui: Sentenza 157 2014 TRIBUNALE DI ROVIGO
Vediamo perché. Il caso risale al 2012: Napolitano, durante un incontro con gli amministratori pubblici di Bologna, aveva esortato tutti al sacrificio per uscire dalla crisi economica. La donna di Rovigo, su Facebook, aveva commentato: “noi i sacrifici li stiamo già facendo perché non abbiamo scelta, capito testa di c***o?”.
“Era lo sfogo di una donna disperata: disoccupata e in stato di gravidanza” racconta il suo difensore, l’avvocato Micucci. “Anche se dopo aveva inviato una lettera di scuse a Napolitano (lettera rimasta peraltro senza risposta), il pm aveva chiesto per lei la pena di 10 mesi di reclusione. Uno sproposito”.
Il giudice, alla luce della sentenza della Corte europea, ha assolto la donna, affermando la necessità di distinguere le critiche gratuitamente offensive, immotivate o eversive, dalle critiche – anche aspre – di natura politica: “La possibilità di esprimere il proprio pensiero politico” scrive il giudice “non è solo un diritto ma anche l’essenza stessa di uno Stato che, in difetto, non può dirsi democratico”.

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Una vignetta di “Libero” (2011) denunciata per vilipendio: ritrae anche Napolitano.

Bisogna aggiungere però, come nota acutamente la penalista Irene Gittardi, alcune grosse differenze fra le legge anti vilipendio francese e quella italiana: in Francia si puniscono solo le offese scritte o dette a voce, mentre in Italia si puniscono le offese in qualunque forma (anche gesti, pernacchie, manomissioni di foto, vignette satiriche); in Francia si puniscono solo le offese dette in pubblico, mentre in Italia questo aspetto è irrilevante; infine, in Francia la pena prevista è solo pecuniaria (ammenda fino a 45mila euro), mentre in Italia è solo detentiva. Ma, quel che più conta, in Francia il presidente della Repubblica è anche il capo del governo: fermare le critiche nei suoi confronti significherebbe limitare il dibattito politico. In Italia, invece, il presidente ha un ruolo soprattutto simbolico: è il capo dello Stato, rappresenta l’unità nazionale ed ha alcuni poteri di indirizzo politico.
Ecco perché, in Italia, il contrasto fra vilipendio e libertà di espressione può essere risolto solo riformando il Codice penale, come lo stesso Napolitano ha auspicato già nel 2013, non nascondendo, però, le sue preoccupazioni per i possibili abusi: la libertà di critica, ha detto, non deve prevedere “grossolane, ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni”. Un equilibrio difficile: che cosa accadrebbe se tutti fossero liberi di insultare il presidente? Calunnie, ingiurie e diffamazioni sono punite da diverse leggi, ma la carica più alta dello Stato ha bisogno di un rispetto e di tutele maggiori? D’altra parte, se un presidente – parlo in astratto – si comportasse in modo scorretto, come lo si potrebbe criticare senza il timore di cadere nel reato di vilipendio?

Probabilmente, la soluzione che si adotterà in Italia sarà sul versante delle pene: non più il carcere, ma pene pecuniarie. Vedremo come andrà a finire: nel frattempo, qui sotto ho riassunto i casi di vilipendio che hanno innescato il dibattito al Senato. A voi giudicare se se i 3 imputati “eccellenti” meritino una condanna o no:

Protagonista

Frase incriminata

Umberto Bossi. L’episodio risale al 2011. E’ stato condannato a un anno e 15 giorni di reclusione in Cassazione (12 settembre 2018) Durante un raduno della Lega ad Albino, Bossi disse: “Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica [ fa il gesto delle corna ]. D’altra parte, nomen omen, Uno che si chiama Napolitano, Napolitano … non sapevo che l’era un terùn…”. Fonte e video qui
Francesco Storace. L’episodio risale al 2007. Storace è stato condannato a 6 mesi (pena sospesa). Napolitano aveva definito “indegno” chi attaccava i senatori a vita, e in particolare Rita Levi Montalcini. Allora Storace scrisse «non so se devo temere l’arrivo dei corazzieri a  difesa di villa Arzilla, ma una cosa è certa; Giorgio Napolitano non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare, per evidente faziosità istituzionale, è indegno di una carica usurpata a maggioranza». La fonte qui
Giorgio Sorial. L’episodio risale al 2014. E’ stato rinviato a giudizio nel 2016, si ignora l’esito L’esponente grillino ha accusato il presidente di non garantire le opposizioni nelle discussioni delle leggi: “il termine ‘tagliola’ riporta in mente che ci sia una violenza verso le opposizioni. Il boia Napolitano sta avallando una serie di azioni contro le opposizioni per cucire loro le bocche, anzi per tagliarci quasi la testa ed evitare che possiamo riportare i lavori di queste aule per il bene dei cittadini”. Fonte e video qui. Sorial risulta rinviato a giudizio nel 2016 (fonte qui), e non si conosce l’esito del procedimento.
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