0

Si possono dire parolacce al lavoro?

Le volgarità possono costare il posto, ma non tutte (montaggio foto Shutterstock).

C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina viziata”: lei l’ha portato in tribunale chiedendogli un risarcimento di 12 milioni di dollari. Come andrà a finire?
Difficile dirlo. Le sentenze sulle offese pronunciate negli ambienti di lavoro sono molto diverse fra loro. Chi finisce sotto processo può aspettarsi di tutto: di essere multato, licenziato o dichiarato innocente
In Italia è rimasto scottato Gian Luca Rana, il figlio del re dei tortellini. E, negli Stati Uniti, il fondatore di Apple Steve Jobs e il padre del sistema operativo Linux, Linus Torvalds: qui sotto vi racconterò le loro storie.

Quando vengono insultati, i capi licenziano: ma spesso è un provvedimento eccessivo (Shutterstock)

Ma allora come dobbiamo regolarci? Si possono usare o no le parolacce sul lavoro?  La risposta è maledettamente complessa: “dipende”. Dipende da chi le dice, da come le dice, da chi le subisce e in quale ambiente. Infatti, se ci fate caso, il quesito è generico: chiedere cosa si rischia dicendo parolacce sul lavoro è come domandare se lo sport è pericoloso. L’alpinismo lo è senz’altro, ma le bocce molto meno, anche se entrambi sono “sport”. Infatti anche le parolacce, come lo sport, sono una grande famiglia che comprende espressioni molto diverse fra loro: insulti, termini enfatici, imprecazioni, oscenità… Ciascuna ha una carica offensiva diversa, e può essere usata in modi e in ambienti differenti. 

Come giudicano i giudici

Dunque, per valutare quanto è rischioso l’uso di un’espressione scurrile, bisogna entrare nel merito ed esaminare la situazione in ogni dettaglio. In questo articolo racconterò i principali orientamenti della giurisprudenza sul lavoro, dividendoli a seconda del tipo di scurrilità e di situazione. Perché i magistrati, quando si pronunciano su questi casi, soppesano non solo la carica offensiva di un insulto (c’è un ottimo libro che racconta come sono stati giudicati oltre 1.200 termini), ma devono considerare anche altri elementi: l’intenzione del parlante, i suoi modi, il contesto in cui parla e chi lo ascolta. Sono fattori importanti, che possono appesantire o annullare la carica offensiva di una parola.

Negozio imbrattato con scritte insultanti a Fermo.

Prima di passare in rassegna i principali casi, un’avvertenza importante: ricordo che sono un giornalista e linguista, non un giurista. Quindi, la mia rassegna è una sintesi giornalistica, non una rassegna giurisprudenziale completa. Se cercate un parere giuridico qualificato su un caso specifico, dovete rivolgervi a un avvocato.
Per praticità, ho suddiviso i casi nelle due grandi famiglie di parolacce:

 1) imprecazioni, modi di dire e oscenità, ovvero le volgarità usate per “colorire” il discorso ma senza ledere l’onorabilità di una persona (“Che rottura di coglioni!”, o “Porca puttana!”, o “Questo cazzo di computer”);

2) insulti (“Sei uno stronzo”) e maledizioni (“Vaffanculo”), cioè le espressioni che danno un giudizio negativo o augurano il male a un’altra persona. 

Nel nostro Codice, infatti, gli insulti sono sempre puniti (tranne particolari eccezioni), mentre per le maledizioni non c’è un orientamento univoco: a volte sono assolte come “mere espressioni di fastidio”, a volte sono condannate. Dipende da come vengono dette (con aggressività, esasperazione, astio…) e a chi: quelle rivolte a un’autorità o a un pubblico ufficiale (poliziotto, insegnante, carabiniere, giudice, controllore…) di solito sono punite.

1) IMPRECAZIONI, MODI DI DIRE, OSCENITA’

[ per leggere il contenuto, clicca sulle strisce blu qui sotto ] 

FRA COLLEGHI
 

Al lavoro, siamo liberi di sfogarci o di colorare il discorso? Possiamo dire “Che giornata di merda oggi!”? Dipende dal tipo di lavoro.

Se è un lavoro a contatto con il pubblico, questo tipo di linguaggio è condannato perché è considerato inopportuno e inaccettabile: rischia di ferire la sensibilità dei clienti, e di ledere l’immagine dell’azienda.
In generale, osserva Yehuda Baruch, docente di management alla Southampton Business School, “le società, per allinearsi alle aspettative dei clienti, evitano di esprimersi in un linguaggio volgare perché questo contrasta con le norme sociali. Perciò proibiscono l’uso del linguaggio forte al personale che ha contatto col pubblico”. Chi svolge professioni come il medico, l’infermiere, l’impiegato delle Poste, il portiere d’albergo, il cameriere, il cassiere è tenuto a usare un vocabolario pulito con i clienti/pazienti. Perché chi usa un linguaggio a tinte forti dà l’impressione di essere irrispettoso, incapace di controllarsi, scomposto. In una parola, maleducato: i clienti/pazienti si sentirebbero a disagio, e l’azienda perderebbe prestigio

Fra colleghi spesso si usano parole forti (Shutterstock).

Ma spesso, dietro questa facciata “per bene”, il dietro le quinte è ben diverso. Le aziende, insomma, hanno una doppia morale: se da un lato vietano ai dipendenti di essere volgari davanti ai clienti, dall’altro permettono, o tollerano, o si disinteressano del fatto che dicano parolacce fra loro. Anche perché questa abitudine svolge funzioni importanti: cementa la confidenza fra colleghi, rende più fluide le interazioni e aiuta a sfogare gli stress.
L’ha accertato uno studio fatto in Nuova Zelanda dalla Victoria University di Wellington  e pubblicato sul “Journal of pragmatics” nel 2004. I ricercatori hanno studiato le interazioni fra gli operai di una fabbrica di sapone. Scoprendo  che i lavoratori imprecavano per lo più all’interno del proprio gruppo, usando invece un linguaggio pulito con gli altri. L’espressione “fuck” (fanculo, cazzo) era  utilizzata per “legare i membri del team, allentare le tensioni ed equilibrare i rapporti fra colleghi con diversi livelli di potere e responsabilità“.

Usare un linguaggio sboccato insomma è una manifestazione di parità e confidenza: è come dire “Ti conosco così bene che posso essere così scortese con te”. Senza contare che riducendo le barriere della formalità, un linguaggio più “terra terra” permette rapporti più sciolti e confidenziali.

Anzi: fra colleghi, le regole si ribaltano: chi parla un linguaggio “educato” rischia di essere emarginato, invece di essere apprezzato. Lo ha vissuto sulla propria pelle un collega del professor Baruch, Stuart Jenkins, che aveva lavorato come magazziniere in un magazzino di vendita per corrispondenza nel Regno Unito: al’inizio era stato escluso dal gruppo, ma le cose sono cambiate dopo un confronto rude contro un altro dipendente, che l’aveva accusato di lavorare molto meno di lui. Jenkins gli ha risposto: “Ma vaffanculo, tu sei uno stronzo pigro”.
Il diverbio è finito lì. Ma da quel momento, Jenkins è stato invitato a partecipare alle pause caffé da cui finora era stato escluso. Il ricercatore ha raccontato l’esperienza sul “Leadership organization development Journal”, concludendo che le parolacce sono “un rito di iniziazione che cementa i legami col resto del gruppo”. Insomma, fra colleghi l’inciviltà diventa accettabile, e il comportamento antisociale (spesso veicolato dalle parolacce) diventa socievole. A patto che questo avvenga fra pari grado: lo si può fare con i propri superiori solo se lo consentono o lo favoriscono.

Ben diverso, invece, l’uso delle oscenità, ovvero dei termini sessualmente espliciti. Il confine fra una battuta spiritosa piccante e la molestia, infatti, è molto labile. Chi la fa, deve essere certo che la battuta sia solo e soltanto scherzosa, e che chi la ascolta (se è una persona di sesso opposto) gradisca questo genere di ironia.

Una recente sentenza della Cassazione (1999/2020), infatti, ha ribadito che rivolgere alle colleghe, con insistenza, battute a sfondo sessuale o domande sulle loro abitudini sessuali (anche senza usare termini volgari) ricade nel reato di molestie sessuali, che prevede l’arresto fino a 6 mesi e un’ammenda fino a 516 euro.
 

IMPRECARE AL CAPO
 

Ma nei rapporti con i superiori le cose si complicano. Un autista di autobus che lavorava per una società di Velletri, ad esempio, aveva imprecato (non sappiamo cos’abbia detto, probabilmente qualcosa tipo “E che cazzo!”) quando il suo capo gli aveva chiesto di fare gli straordinari. E il capo l’aveva licenziato. Dopo 2 gradi di giudizio, la Cassazione (sentenza 19460/2018) ha annullato il licenziamento, considerandolo un provvedimento spropositato, a maggior ragione per il fatto che l’autista non aveva insultato il suo superiore ma si era solo sfogato, seppure usando termini forti.

Scelta simile anche per un medico napoletano che in un momento di rabbia aveva detto al direttore dell’ospedale, davanti a impiegati e utenti, “ma tu non hai un cazzo da fare… cresci una buona volta!”, sbattendo la porta. Era stato licenziato, ma la Cassazione (sentenza 12102/2018) lo ha fatto riassumere perché ha considerato il provvedimento “sproporzionato”.

Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro, infatti, non è il rispetto della forma (che ha pure un peso), quanto il rispetto di orari, mansioni, prestazioni. Se un dipendente insulta il proprio capo, per rimettere i rapporti sui giusti binari è sufficiente una lettera di richiamo o al limite una sospensione dal lavoro per qualche giorno. Il licenziamento è una misura eccessiva: offendere un capo non è un delitto di “lesa maestà”. Vista l’asimmetria dei rapporti (il capo ha potere, il dipendente molto meno) un insulto detto in un momento di stress si può anche tollerare, se rimane un caso isolato.

QUANDO IL CAPO IMPRECA AI SOTTOPOSTI
 

E cosa succede a ruoli invertiti? Ovvero quando un capo usa un linguaggio triviale coi sottoposti? Prendiamo ad esempio Steve Jobs: il fondatore della Apple era noto infatti per non avere peli sulla lingua. Con chiunque: fossero estranei, manager di altre società, giornalisti o anche i propri sottoposti.  All’amministratore delegato della Nike, Mike Parker, ha detto in faccia: “Produci alcuni dei migliori prodotti al mondo, ma fai anche un sacco di merda. Sbarazzati delle cose di merda”. Ma il discorso diventa delicato quando queste critiche sprezzanti sono rivolte ai propri sottoposti. Anche se il giudizio pesante è rivolto a una prestazione, è molto probabile che si senta colpito anche l’autore della prestazione: la nostra autostima si basa anche sulla stima altrui, soprattutto se è quella del capo.

Steve Jobs: non le mandava a dire a nessuno, sia in azienda che fuori.

A Ken Kocienda, l’ingegnere che aveva realizzato la prima versione del software di iPhone, Steve Jobs disse che il suo lavoro era “Merda di cane”.
Che fare? Dargli ragione sarebbe stata una pessima idea: “avrei dovuto spiegare perché gli davo un prodotto fatto male”, ha raccontato in un articolo sul Wall Street Journal. Ma contestare il giudizio sarebbe stato peggio: pensi di saperne più di Steve Jobs in campo informatico? Quella frase, per fortuna, non era l’inizio di un lungo cazziatone, ma è rimasta isolata. “Mi alzai e la ascoltai senza commentare”, dice Kocienda. Nonostante questo episodio, Kocienda ha lavorato in Apple per 16 anni: “Da quell’esperienza ho capito due cose. La prima è che il prototipo nuovo di zecca di un prodotto spesso non va bene. Risultati eccellenti arrivano solo alla fine di una lunga catena di sforzi. E quando è necessaria una revisione, di solito è meglio dirlo chiaramente, senza girarci intorno. La seconda cosa che ho capito è che una critica può essere efficace anche se non è costruttiva. Steve non ha mai avuto problemi a rifiutare qualcosa senza dare spiegazioni. Se non gli piaceva qualcosa, lo diceva e basta. Le critiche dirette, anche brutali, possono aiutare a migliorare un progetto se c’è un ambiente di fiducia in cui tutti sanno che i commenti riguardano il lavoro che hai fatto e non te come persona”.

L’ultima precisazione è determinante: una critica anche aspra da un capo si può tollerare se – e solo se – avviene in un ambiente che dia valore ai contributi di tutti e abbia un obiettivo condiviso da tutti. Solo in questo contesto di stima e alleanza reciproca ci si può permettere di dire la verità, di chiamare le cose con il loro nome, anche se è un nome scomodo.
Anche se, in questa vicenda, hanno giocato anche altri fattori: la stima verso Jobs, la consapevolezza di lavorare per uno dei guru dell’informatica e di contribuire a rivoluzionare il settore. E per uno stipendio presumo corposo. Non è così comune lavorare in contesti come questo. E, personalmente, a un genio sgarbato ne preferisco uno un po’ meno genio ma gentile.

2) INSULTI

[ per leggere il contenuto, clicca sulle strisce blu qui sotto ] 

ALL'AZIENDA
 

Il caso che sto per raccontare è finito nell’ultima “Top ten”, la classifica delle 10 parolacce più emblematiche del 2019. E’ una pronuncia controcorrente della Cassazione (sentenza 12786/2019): l’anno scorso aveva respinto il licenziamento di una guardia giurata che, lamentandosi con la centralinista per alcuni disservizi, si era sfogato dicendo “che azienda di merda”.

La Cassazione l’ha difeso affermando che un dipendente non ha “alcun dovere di stima nei confronti della propria azienda”. Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro consiste nel fatto che il lavoratore osservi i doveri di diligenza e fedeltà. E tanto basta. Ma attenzione: i giudici hanno dato ragione alla guardia giurata solo perché il suo volgare giudizio è rimasto all’interno dell’azienda. Se avesse detto la stessa frase su Facebook o in un bar, la guardia avrebbe commesso il reato di diffamazione e il suo licenziamento sarebbe rimasto probabilmente definitivo. Perché in quel caso l’insulto avrebbe leso all’esterno l’immagine, l’onorabilità dell’azienda: e questo rischia di danneggiarla, ovvero di farle perdere credibilità e clienti.

FRA COLLEGHI

Se un lavoratore insulta un collega, non ci sono alternative: sarà condannato. La legge, infatti punisce l’ingiuria (le offese dette in presenza dell’interessato) e la diffamazione (offese dette davanti ad altri, in carne e ossa o sui social network).
Proprio per quest’ultimo reato è stato condannato (Cassazione, sentenza 50831/2016) un docente di Napoli che aveva affisso sulla bacheca della scuola un foglio in cui definiva “ignorante” una collega a proposito delle norme antifumo. 

INSULTARE IL CAPO
 

Il rapporto fra capo e sottoposti è asimmetrico: il capo ha il potere di decidere l’organizzazione del lavoro (orari, mansioni), oltre che la carriera e lo stipendio del dipendente. E c’è un’asimmetria anche nel campo della comunicazione: il capo può redarguire i suoi collaboratori, ma non è ammesso l’inversoEcco perché in alcuni casi la magistratura ha riequilibrato questo rapporto difendendo i lavoratori che avevano “osato” criticare aspramente i loro responsabili.

Per esempio, la Cassazione (Sentenza 17672/2010) ha assolto un avvocato che, parlando del proprio responsabile (in sua assenza) aveva detto “è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo”. Per i giudici, quelle espressioni non erano gratuitamente offensive, ma erano un modo “sintetico ed efficace di rappresentare la conduzione scorretta dell’ufficio, che rischia di portarlo alla rovina”. Insomma, a volte una doccia fredda può servire a rimettere capo e colleghi sulla retta via.
E cosa succede se si dice in faccia “ignorante” al proprio capo? L’impiegato di una ditta di Potenza era stato licenziato per questo, ma la Cassazione (sentenza 14177/2014) l’ha fatto riassumere, considerando sproporzionato il provvedimento: un’offesa, per quanto irritante, non è così grave da impedire di proseguire un rapporto di lavoro.

Il licenziamento, infatti, è ammissibile solo quando nega gravemente gli elementi essenziali del rapporto di lavoro, e in particolare la fiducia. Se un dipendente non si presenta puntuale in ufficio, se lavora male, se ruba i soldi, allora in questo caso è licenziabile perché procura un grave danno morale o materiale all’azienda.

QUANDO IL CAPO INSULTA I SOTTOPOSTI

Ma quando accade il contrario, ovvero, quando è il datore di lavoro a offendere un proprio dipendente, il discorso cambia: i giudici puniscono i capi che dalla loro posizione di potere mancano di rispetto ai sottoposti (che di solito non reagiscono, temendo di perdere il lavoro).
E’ il caso di un uomo di Avezzano, che aveva strigliato una propria dipendente dicendole “Sei una stronza se te la prendi”. La Cassazione (Sentenza 35099/2010) l’ha condannato a pagarle 800 euro di risarcimento ribadendo che quando un datore di lavoro fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non può prescindere dai “normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica”.

Lo stesso principio è stato ribadito anche in caso di prese in giro insultanti. La Cassazione (ordinanza 4815/2019) ha ribadito infatti che Gian Luca Rana, amministratore delegato e figlio del fondatore del celebre pastificio Rana, dovrà risarcire un ex manager: in pubblico lo chiamava “finocchio”. Il manager non gradiva l’appellativo, ma taceva “perché era in una condizione di inferiorità gerarchica”, e temeva conseguenze per la propria carriera e per il suo stesso posto di lavoro. Così ha fatto causa all’azienda solo dopo essersi dimesso, lamentando uno “stato d’ansia e di stress e danni alla vita di relazione, alla dignità e professionalità”. Rana si è difeso dicendo che era un appellativo scherzoso: può darsi, ma scherzare davanti ad altri sull’orientamento sessuale di un’altra persona non è una scelta rispettosa. Tant’è che la Corte ha deciso che l’ex manager aveva diritto a un risarcimento per la lesione di “diritti inviolabili della persona”.  

Linus Torvalds fa il dito medio contro Nvidia, produttore di chip da lui contestato.

Ne sa qualcosa anche Linus Torvalds, l’informatico finlandese che ha sviluppato Linux, il celebre software “open source”. Torvalds è stato molto contestato perché nelle chat con gli sviluppatori del programma (gratuito) chiamava alcuni di loro “fucking idiots” (idioti del cazzo). Di fronte all’ondata di indignazione internazionale per questo comportamento, nel 2018 Torvalds ha riconosciuto che “il suo comportamento non andava bene”, dicendosi molto dispiaciuto. Tanto che si è preso una pausa per “farsi aiutare a comportarsi in modo diverso”. E ora il progetto Linux si è dato un codice di condotta che stabilisce di usare un comportamento professionale e gentile. 

Per approfondire

Se siete interessati al tema “leggi e parolacce” su questo sito trovate molti altri articoli sull’argomento (cliccare per andare al link):

Condividi su:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *